Tutto dondola e l’equilibrio si fa precario. Mi giro sospirando un po’ di noia. Sul letto c’è un po’ di “lavoro arretrato” per la Kizmaiaz Publishing & Promotions: l’ultimo disco di Howie Beck. Accendo lo stereo. La stanza si sgretola dal pavimento e i miei pensieri tendono al blu. I cumuli nembi stavolta parcheggiano il culo vicino allo stomaco e l’eco di “Sometimes” suona come l’ultimo avvertimento di Dio nei confronti della vostra bucherellata sensibilità .

La verità  è che non ci meritiamo proprio niente, cazzo, e dovremmo tornare a vivere in mezzo alla cenere. Nel frattempo, mentre aspetto la fine del mondo con un frullato di fragole davanti e una stella implosa nella mente, ascolto un circolare tunnel verticale di spunzoni acustici e giri di basso fin troppo precisi per non compromettermi ulteriormente l’umore. Arrivato al sudore salato di “Floating” che evapora dalle casse mi godo la visuale di te che bruci.

Si, lo so che è solo una foto, ma tu adesso stai bruciando e questo mi può bastare per ora. Adesso mi verrebbe proprio da metterti sotto ai piedi nudi una piccola parte della mia anima e dirti “Dai, cazzo, prova a camminarci adesso su questo rasoio”…”. Le impressioni che manda il disco sono cose ben note e hanno il sapore malinconico dei Grandaddy nelle loro ballate più sognanti, quelle piene di chitarre acustiche ed echi lontani (periodo “Sophtware Slump”/”Sumday” per lo più) e romanticismo da Gravenhurst. Aleggia un po’ di monotonia a volte e c’è anche qualche traccia deplorevolmente (troppo) pop degna del miglior pupazzo Gnappo, messa lì in modo alquanto azzardato ma, sostanzialmente, niente di troppo scandaloso.

La verità  è che non mi stancherò forse mai di chi si lagna a dismisura della vita con una chitarra acustica in mano. Fosse Thom Yorke, Jason Lytle o la mia vicina di casa per me fa lo stesso. Il disco finisce. Esco: alberi pallidi, gente rinsecchita, prosciugamento massimale di tutti i liquidi corporei e totale assenza di vocali.