L’immaginario collettivo è una gran fregatura si sa. Tipo se io penso a Bristol non posso proprio fare a meno di immaginare cieli plumbei, decadenti edifici industriali rovesciati nel riflesso di pozzanghere nere, suoni elettronici dilatati, la voce cavernosa di Horace Andy dei Massive Attack e tutto il resto. Questo per dire che il fatto che una band di Bristol come i The Heads suoni come la versione più allucinata e acidamente psichedelica dei californiani Kyuss di fatto mi causa dei discreti problemi di dislocazione spaziotemporale.

Ma siccome alla fine sempre dalle parti di certo Stoner siamo, tra riff martellanti e collosamente impastati che sembrano suonati dentro un barattolo di nutella, distorsori acidi fuzzati all’inverosimile capaci di tenere una plettrata per un minuto e mezzo, intrecci con tastiere elettroniche psichedelicamente degne dei migliori Hawkwind “…ecco insomma galleggio stordito tra la tracklist di “Under The Stress Of a Headlong Dive” e improvvisamente i disturbi di dislocazione spazio temporale mi sembrano l’ultimo dei miei problemi. Dunque la faccenda grossomodo fù questa: i Kyuss, ovvero i progenitori dei Queens of The Stone Age per i distrattoni, da qualche parte nell’anno di grazia 1992 uscirono con questo micidiale impasto di ruvido suono grunge (una vera primizia per quei tempi diciamolo), una rispolverata e rallentata a certi storici riff dei Black Sabbath, il tutto generosamente innaffiato con una salutare dose di psichedelia dei migliori 70 e una bella manata dell’irruenza sfacciata e sboccata del punk.

In effetti un discreto terremoto nel rock underground di quei giorni se si considera che ancora oggi, complice sicuramente il successo ad ampio raggio dei Queens of The Stone Age, certe sonorità  Stoner ancora imperversano allegramente anche nel rock mainstream e sono a ben vedere arrivate anche a sconfinare in certo metallone Drone addirittura di avanguardia. E insomma come tutte le storie famose mentre Kyuss e Monster Magnet finivano sui libri di storia c’è sempre chi la mossa giusta l’aveva fatta più o meno al momento giusto, ma le congiunzioni astrali o forse in questo caso soprattutto la dislocazione geografica di cui si diceva all’inizio li hanno relegati, si fà  per dire, a band di culto tra gli appassionati senza mai raggiungere la gloria dei grandi nomi. E in molti casi si sa, è molto meglio così.

I The Heads si conoscono all’inizio degli anni “’90 come vuole la tradizione di quei bei tempi in un negozietto di dischi di periferia e iniziano a suonare, come la tradizione vuole un po’ meno mi sa, nel classico garage ma di un tizio momentaneamente finito in prigione per non si sa bene cosa. Per la serie certe occasioni vanno prese al volo eh. Arrivano oggi con questo se non erro settimo album, dopo una numerosa serie imprecisabile di EP che sono stati storicamente il loro formato di pubblicazione prediletto, con una purezza di intenti rispetto ai loro esordi quasi commovente tanto da sconfinare nell’anacronistico a voler essere prospettici. Questa band inglese ha sempre avuto ben presente cosa è il senso della misura, altrimenti non si spiegherebbe come sistematicamente riescano a ignorarlo in qualsiasi forma, contesto e modo. Forse per questo i The Heads non hanno mai fatto un disco globalmente imperdibile, tendono inesorabilmente a strafare ma d’altra parte questa è musica per fare casino, molto, e senza troppe paranoie. Resta il fatto che l’entusiasmo e la delirante dedizione con cui i nostri portano avanti la loro fede nello rock più psichedelico è come minimo una bella notizia nell’era delle mode da cinque minuti.

Da bravi outsider dopotutto non si sono mai veramente inseriti neppure nella scena Stoner fosse solo per la stretta parentela con certo space rock come quello dei già  citati Hawkwind che è parte fondamentale della loro musica: geneticamente rintracciabile soprattutto nelle lunghe e completamente folli jam come “Stodgy” o “Creating In The Eternal Now Is Always Heavy”. Due brani acidamente psichedelici come poche cose al mondo e che da soli totalizzano qualcosa come 35 minuti di suonato. O di distorto delirio Space Rock fate un po’ voi. In ogni caso in bocca al lupo. E non fatevi scoraggiare dalla cacofonia della seconda metà  di “Earth/Sun”. Lì erano solo impazziti.