In un appartamento di New York, Yuki Chikudate sta dormendo sdraiata sul letto. La televisione è accesa. Accanto a lei ci sono un mangiadischi, un microfono ed alcune foto in bianco e nero (insieme a delle polaroid a luci rosse). Sono foto della sua città ; descrizioni dei più piccoli dettagli della Tokyo degli anni Novanta; nostalgicamente lontana da quella visitata da Bill Murray. Una volta sveglia, la cantante degli Asobi Seksu (“sesso giocoso”) mette un 45 giri nel mangiadischi, si mette a sedere sul letto, prende il microfono con fare sensuale, ed inizia a cantare, metà  in inglese e metà  in giapponese, cambiando registro con la facilità  in cui nei vecchi cartoni giapponesi si cambiava scena.

Improvvisamente, le strade tranquille e silenziose, attraverso le quali Ataru Moroboshi tornava a casa da scuola, si colorano delle luci al neon psichedeliche e dream-pop dei Cocteau Twins (“Strawberries”). Gli sbalzi di umore della sua voce riflettono ora la malinconia finale di Hokuto No Ken, con Blondie di spalle, col vento che le muove il vestito, al posto di Lynn (“Goodbye”); ora la sensualità  di Fujiko (Lupin III) mentre faceva la doccia – e i nostri ormoni di adolescenti impazzivano – e, improbabilmente, ascoltava i Radio Dept. più elettrici (“Strings”); ora la confusione noise rock di una battaglia di Jeeg Robot d’acciaio (“Red Sea”).

Una volta finito di cantare, Yuki si affaccia alla finestra e respira a pieni polmoni l’aria della Grande Mela. Ha i capelli sulla fronte bagnati dal sudore. Gli anni Novanta sono sempre più lontani; la sua casa è dall’altra parte del mondo. Ma Citrus, il secondo album della sua band, è un lavoro prorompente: è un allegro e nostalgico – a volte rabbioso – tentativo di unire la sua infanzia nipponica al suo presente negli States, senza venire a compromessi – soprattutto con se stessa. E’come sfogliare l’album Panini del pop-rock, aggiornato al 1990; o come se i My Bloody Valentine, tenessero un concerto al Cat’s Eye di Kelly, Sheila e Tati; naturalmente live, su Junior TV.