Lasciati i grandi laghi del Michigan, Sufjan Stevens sale sul suo vecchio van da cantautore e, insieme ad i suoi amici, riparte per l’Illinois; ma questa volta sceglie un percorso diverso, lungo strade nascoste; evitando consapevolmente le vie principali, in cui i Greyhound vanno e vengono, con i loro carichi di speranza e disperazione. Un percorso che passa per le strade provinciali: incrocia la “Springfield” di Andrew Bird; si ferma ancora per una ballata in quella “Chicago” in cui si innamorò; torna nella casa dei suoi nonni e ripensa ad una vecchia storia d’amore (“Pittsfield”), che sembra scritta da Elliott Smith; mangia un panino davanti alla statua di “Adlai Stevenson”, sporcata dai piccioni ed ignorata dai bambini della scuola, mentre la banda dei Beirut di “Gulag Orkestar” intona una marcia; si ferma, di tanto in tanto, in qualche vecchio locale a suonare.

Il tempo di abbozzare sul suo moleskine i volti e le vite delle persone che incontra; il tempo di ricevere da ognuno di loro qualcosa da conservare: un prete a cui nessuno crede più (“The Henney Buggy Band”), un uomo alla ricerca di se stesso (“The Perpetual Self”), un calcolatore a cui fare domande sulla vita (Dear Mr Supercomputer). “The Avalanche” è un disco che non doveva essere pubblicato; i cui personaggi sarebbero dovuti morire ancor prima di vedere il mondo; contiene suoni e sentimenti a cui l’autore non si è sentito di dare subito voce. E’ come un furgone che passa per una strada di quartiere, silenziosa e deserta e, con la sua musica, rianima gli abitanti del sobborgo, fa affacciare gli anziani alle finestra, correre fuori i bambini e poi, lentamente, si allontana fino a scomparire.