Insomma ero dentro sto cazzo di centro commerciale e mi beccavo tutte le radiazioni della musica pop che uscivano dalle casse, gustandomi i primi sintomi di una precocissima Britneyspearsite quando mi vedo attorniato da un sacco di rugosissimi anziani. Ma erano proprio tanti e con la gazzetta rosa sotto al braccio. Tutti intenti a parlare del mondiale, di Moggi, della Juve e della pastina col dado Knor. C’era un donnone di 2,58×3,47 m che si stava incazzando di brutto con un tizio che suonava il clarinetto. Nella mia mente dopo un minuto è scattato il sistema di sicurezza temporaneo: Syd Barrett. A memoria cantavo “I Really Love You/And I Mean You/The Star Above You/Crystal Blue/Well Oh Baby My Hair’s On End About You..” poi mi sono svegliato col nuovo disco dei Razorlight talmente a palla che il cane si stava togliendo la vita sbattendo la testa a sangue sul muro: era andato col cervello. Del tutto. Easy listening e orchestralità , queste le priorità  più urgenti per la seconda prova del gruppo di Johnny Borrell e soci.

I Razorlight attualmente rappresentano come nessuna altra band inglese in circolazione il pop come deve essere suonato. Catchy ma non per questo banale fino ai minimi termini, cambi di ritmo, un tocco d’improvvisazione, melodie che funzionano davvero e non accenni di idee musicali lasciate a metà  o sporcate dalle distorsioni e da dichiarazioni cocenti contro chiunque. Se il precedente “Up All Night” era servito a dare la sveglia e a far convergere migliaia di macchine fotografiche sul faccione pallido di Borrell, che tanto si divertiva nel frattempo a sproloquiare di questo e di quello, riuscendo anche a prendere sul muso una testata di Pete Doherty, questo lavoro omonimo punta solo ed esclusivamente al cuore di un certo tipo di musica e lo fa in modo differente dal debut. Se due anni fa i Razorlight erano sinonimo di camere d’albergo ridotte in maniera vergognosa, vestiti bucati, garage, pop, voce raschiante e concerti sudatissimi stavolta l’aria è cambiata in parte. Già  dal brano scelto per aprire il disco (il singolo scelto per il lancio dell’album) “In The Morning” si capisce che le atmosfere sono meno tirate di quelle del disco precedente, lasciando intravedere addirittura un accenno di gospel (la coda del brano è tutto eccetto che “claustrofobica” come la compresisone garage degli ultimi anni ci ha portato ad intendere il rock’n’roll).

Ecco allora il pop trascinante di “Who Needs Love?” che si stampa dietro al cervello e non si stacca più: mille battute di pianoforte e coretti gioiosi perfetti per l’estate. Oppure in primo piano i sentimenti verso una nazione, traditi da una canzone scritta di notte quando in tv o alla radio non c’è niente d’interessante (America). Spesso trasudano i Police e tutta un’atmosfera musicale che è storia e che ormai ha superato già  da anni le barriere del tempo. Pulp e Smiths invece le influenze fondamentali di una canzone acustica come “Kirby’s house” (che nel testo riprende anche per un attimo “In The Morning”). La voce di Borrell nel disco non raschia più l’asfalto ma vola alta a prendersi dei toni che su Up All Night erano semplicemente impensabili. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica. Infatti, di contro a tutte queste belle parole c’è il fatto che aprendo la gabbia di un sound che basava la sua componente d’impatto sugli accordi veloci di una gibson affilatissima e di un basso precision appuntito e penetrante, non c’è più la canzone che perfora i polmoni e irrompe di prepotenza. Niente più “Golden Touch” o “Rip It Up” insomma ma, piuttosto, un’insieme più sfumato di belle canzoni pop che sommate arrivano giusto giusto a 35 minuti risicati. Ma va bene anche così.

Anzi, va a finire che dentro a sto pezzo tondo di plastica che gira ci ritrovi una nuova versione delle giacchette di pelle taglia super XS, dei jeans strappati e rattoppati con il nastro isolante nero e di tutti gli “stylish kids on a riot” a cui eri tanto affezionato qualche anno fa. La cosa non sembra affatto dispiacerti. Per un momento ti viene quasi voglia di ritornare a gridare al mondo che i “poliziottidi New York non sono poi così intelligenti”.