Ieri ho tagliato l’erba del mio giardino. “Che cacchio ce ne frega a noi?” E la recensione potrebbe finire qui, se non fosse che per la prima volta ho messo in cuffia un disco che passava di gran lunga i decibel del mio fedele Sanor 56 VARrc (il taglia erbe dei sogni). “Dipende dal volume”, bella scoperta, questo si, ma in 55 minuti non sentire mai il suono del tuo trattore è una cosa quantomeno anomala.
“Chi ascoltavo” dite? Semplicemente quello che sarà  uno dei 10 dischi indie dell’ anno: “Pink” dei Boris.

I Boris per la cronaca sono i giovini Takeshi-san (voce e basso), Wata-san (echo e chitarra) e Atsuo-san (Batteria). Cresciuti a manga, tampuri, lamù ed inchini reverenziali fra mura di cartapesta, il trio proviene dall’ antichissimo impero Yamato, leggasi Giappone. Con estrema noncuranza e con non chalanches i Nostri hanno semplicemente inciso e prodotto ciò che sarà  tramandato ai nostri figli come il nuovo “Loveness” (volendo colorire un po’).

“Pink” è pura mistica indie-noise incisa su bibbia vinilica con unghie, sangue e amore; buona novella raccontata alla velocità  dei Fugazi, predicata con l’intensità  dei Sonic Youth e con tutti i crismi dei My Bloody Valentine più emotivi, trascinanti e maledettamente amabili.
Ritmi da camera iperbarica, irrompono dallo stereo, nello stereo rimangono, niente è più come prima, tutto è come prima, solo più noioso. Una versione psichedelica dei Fu Manchu, i Liars incazzati, i Led Zeppelin di oggi in Giappone, sotto ectstasy.

L’ho ascoltato l’altro giorno su National Geographic, faceva da colonna sonora ad un servizio: “Lotta per la vita fra un serpente a sonagli ed una mangusta”; ha vinto il serpente”… ovviamente.
Disco cattivissimo, prego astenersi cardiopatici, WWeffini e lupetti.
Capolavoro.