Immaginate che qualcuno un giorno bussi alla vostra porta (e che non si tratti dei due che vanno a prelevare Josef K.); che non siete voi che avete ideato questa messinscena, per rimettere in sesto la vostra vita; che non siete una star da The Ousborne, ripresa da una telecamera mentre parla con la bocca impastata; e che colui che bussa alla vostra porta non è quel testimone di Geova che avete già  cacciato in malo modo almeno una trentina di volte; ma che si tratta di uno di quei tizi che lavorano per conto delle migliaia di etichette indipendenti a cui avete spedito la vostra fottuta cassetta: l’unico che non solo si è degnato di rispondere, ma che è addirittura arrivato a casa vostra a prelevarvi in macchina (ok, non sarà  una limousine, ma una alfetta diesel marrone metallizzata è “robba”…). All’inizio lo scambiate per uno di roomraiders e lo state per mandare a cagare: ma prima che lo facciate, il tizio vi mostra – stile questo-detersivo-è-meglio-di-quello – la vostra famosa cassettina: non credete ai vostri occhi! In tutta fretta vi alzate, fate una colazione veloce con cappuccino e due pangoccioli e mezzo, vi lavate e vestite quel tanto che basta per non intaccare la vostra aura da disgraziato e, dopo aver bevuto mezza bottiglia di whisky del Penny Market (davanti agli occhi assonnati e ai capelli sconquassati di vostra madre) – letteralmente – vi fiondate sull’alfetta e schizzate via verso lo studio di registrazione, incuranti delle cinture e della guida in stato di ebbrezza.

Ecco, arrivati allo studio, scoprite che è una cacatina d’uccello (non che vi aspettaste la tenuta pugliese di Albano…); ma, a questo punto, non vi scoraggiate neanche quando vi danno soltanto una chitarra acustica scassata, scordata e piena di polvere (con gli acari che suonano una ballad alla vostra allergia). Cominciate a suonare; e questo è tutto.
Ci mettete la rabbia di non essere arrivato – e forse non lo farete mai; la rabbia per non aver ancora combinato niente nella vostra vita, mentre tutti – e dico tutti – intorno a voi sfornano bambini, lavorano come cinesi, divorziano sette volte, si comprano un telefonino e vanno le vacanze intelligenti in Niger.

Parlate della vostra vita; di quello che vi succede intorno; e, alla fine, ne viene fuori una specie di concept album sugli alberi: quante volte, davanti alla finestra, avete guardato la tempesta abbattersi sul bosco vicino casa vostra (sì, proprio quel bosco con quello strano giro di donne e auto in sosta con le doppie freccie); quante volte gli alberi sbattuti dal vento vi hanno suscitato quella sensazione di drammatica bellezza; con le foglie che roteavano in cielo e l’aria di pioggia che veniva da chissà  dove.
Non usate parole come “fuck” o “Bush”, però le vostre canzoni suonano dannatamente bene lo stesso. Siete consci che il vostro album sarà  praticamente distribuito tra i conoscenti, tra gli amici degli amici; se siete fortunati, qualche disperato potrebbe menzionarlo su internet (e nemmeno quello), ma nulla più. Eppure, cazzo! Cosa avete meno di un Bright Eyes (“Free”)? di un iper-sopravvalutato M. Ward? di un Bonnie Prince Billy (“Mt. St. Helens Cures Insomnia”)? di un Sufjan Stevens (“Sunset” e “Harps”)? Che ci potete fare se siete cresciuti a melanzane alla parmigiana e folk? Se ogni volta che siete stati lasciati, vi siete ritrovati a suonare – anche nel cuore della notte – la vostra armonica (con buona pace e bestemmie dei vicini)? Se le corde della vostra chitarra hanno sempre suonato sporche?

Eppure, un blogger dal nome misterioso, che scrive per una fanzine italiana (ogni riferimento a persone o fatti è puramente non-casuale…), disse di voi: in un tempo in cui i tributi sono più dei programmi della De Filippi e Costanzo messi insieme, “Where The Trees Go” arriva a raggiungere le pianure dove riposa Elliott Smith (“Island Free”, “No Room For Tea”, “(trial)”, “On Conversation” e “Night”).