Berlino. E’ inverno, il nuovo anno è iniziato da pochi giorni e io mi innamoro. Mi innamoro di una città , della sua gente, della sua musica. Ho una stanza al quarto piano di un palazzo nel cuore di Kreuzberg con una finestra enorme da cui vedo scritte antiche pennellate su facciate scrostate. Cade la neve in continuazione, lenta, leggera, ma costante. Nel tardo pomeriggio, sono sempre in camera. Mi piace aspettare il buio davanti alla mia finestra. Spesso faccio l’amore. Faccio l’amore e mi addormento prima di cena. Ho un po’ di dischi da suonare a quell’ora, sono tutti dischi della Morr. La musica dell’etichetta e la sua città  mi sembrano della stessa natura. I miei preferiti sono i Lali Puna, continuo a suonarli. Subito dopo vengono gli Electric President, non sono di Berlino, ma qui hanno trovato la loro fortuna, non poteva essere altrimenti.

Milano. Sono passati diversi mesi da quei momenti. Il disco degli Electric President era uno dei miei favoriti, per le sue chitarre delicate, per l’elettronica sensibile, per le melodie a presa rapida cantate da Ben Cooper. Ma ora, ho come la sensazione di averlo digerito e archiviato, di non averne un bisogno viscerale. Mi si presenta però l’occasione di vederli dal vivo, qui a Milano. Decido di rispolverare il disco allora, e mi vergogno subito di essere stato un amante superficiale e distratto, di aver perso tempo ad ascoltare tante insulse novità  invece di approfondire sentieri già  solcati. In poco, torna ad essere uno dei miei dischi dell’anno, e mi sale una certa impazienza di vederli dal vivo.

E’ un martedì sera piovoso e inospitale. Entro al Plastic in perfetto orario, guardo il palco infelice, mi scolo due birre e mi siedo in poltrona nella saletta accanto. Chiacchiero del più e del meno, aspettando che la sala si riempia, ma nulla: all’inizio del concerto siamo al massimo una trentina. Mi aspetto un set intimo, da ascoltare abbracciati e invece il colpo d’occhio è molesto. Ben Cooper si presenta con un berretto da aviatore, una chitarra e improbabili espressioni comiche. Alex Kane non è da meno e pare piuttosto a disagio con in braccio il suo basso. C’è un terzo elemento sul palco ad occuparsi delle basi elettroniche. Ci si aspetta un set intimo, dicevo, ma quel che arriva alle orecchie nei primi minuti è un suono rumoroso ed impastato, complice la pessima acustica del Plastic e i volumi settati evidentemente a caso. Si impegna Ben, ma come fargli capire che non è serata, che le faccine idiote con cui vorrebbe calarsi in una parte indefinita stonano irrevocabilmente, che vorremmo meno note e più colori, che è riuscito a rovinare persino “Good Morning, Hypocrite”. Qualcuno comincia visibilmente ad irritarsi e la prima fila si svuota. E’ un vero peccato perchè le canzoni ci sono, eccome. Col passare dei minuti i volumi migliorano e c’è spazio anche per una “Insomnia” che riesce a resuscitare l’interesse dei presenti. Il pezzo si rivelerà  in assoluto il momento più riuscito della serata. A seguire, ad una incollatura, una “Ten Thousand Lines” posta quasi in chiusura a lenire il dolore per le aspettative deluse e a regalare qualche speranza di un’evoluzione positiva anche dal vivo.