Ogni più lieto
giorno di nostra età  primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte.

Giacomo Leopardi, “Ultimo Canto Di Saffo’.

Cosa succederebbe se un becchino innamorato di Vinicio Capossela, ma senza nessuna voglia di ridere, quantomai di sorridere, decidesse di rifare i suoi brani in chiave acustica, magari con l’aiuto del custode del cimitero al violino? Ne verrebbe fuori un capolavoro intitolato “Failing Songs”. Suona così quest’album, come un Capossela senza pernacchie e sberleffi, cupo, ipermalinconico, ma senza autocommiserazione dei propri impacci esistenziali e senza insegnamenti o messaggi da mandare a chicchessia. Nessun manierismo, solo cupezza di anime alla deriva tra i marosi tempestosi. Disco evocativo, sospeso tra malinconici flamenchi e virtuosismi strumentali di notevole livello.

Si alza il canto di uomini feriti, disillusi, abbandonati nella dimenticanza dei vivi, quelli sani che aspettano ridenti il radioso futuro. Lamento di marinai stremati su un galeone alla deriva. La battaglia è andata persa. Morti e mutilati dappertutto, legno rubinoso, impregnato del sangue umiliato. Carcassa in preda alle correnti e ai capricci degli Dei del mare. Le vele dilaniate, strappate dalla furia del cannone, non servono più e s’abbandonano al disfacimento generale. Poca voce anche per invocare aiuto. Il lento sciabordio delle onde ricorda ai più la mano premurosa della madre che basculava la culla. Barbe lunghe, incolte, sporcizia, ma sguardi ancora vitali tra le accennatte fessure degli occhi. Il sole impietoso brucia tutto: legni, pelli, volontà , anime in disuso. Visioni. Visioni di un menestrello indolente, che volteggia e sembra benedire gli ultimi rimasti. Suoni che nascono dal profondo del baratro. Come cera calda avvolgono e sigillano.

C’è un vagheggiamento balcanico, soprattutto nel violino anarchico, nella fisarmonica e nel vociare inquieto. Già  i Balcani. Levatevi dalla testa l’esplosione incontrollata di Kusturià§a e Bregovic. Qui ci sono solo lacrime zingare. Movimenti strumentali, voci epiche ed esauste, cori sacrali si prostrano in devozione a Matt Elliott, il corifeo che dirige, che segna il tempo, che si lascia trasportare da note antiche, a disagio con la frenesia contemporanea, ma altere, fiere, sussurrate, alticce. Un talento rilevante ed evidente percorre tutto l’album e si esalta nei pezzi stumentali, uno su tutti “The Ghost Of Marìa Callas”, dove sazia orecchie affamate del sublime.
Musica notturna, per perdersi nei vicoli più bui a rimirare quegli angoli nascosti alle anime immacolate.

Casse di cognac, diavoli da osteria, sudore, rose con le spine strette tra le mani, dolore e salvezza nel candore. “Compassion Fatigue”, “Gone”, “Desemparado” e “Lone Gunman Required” creano inni funebri fragili accompagnati dal canto lieve di uccelli e dallo scorrere di ruscelli. Elliott ha piantato il bastone e le acque si sono divise. C’è chi non lo seguirà . Altri lo faranno, perchè non gli è rimasto altro. E’ la loro necessità , tutto ciò che è e che non può non essere. Linguaggio difficile, arzigogolato, che chiede pazienza. Fermati e ascolta. Se ti brucia il terreno sotto i piedi allora non è per te. Non è una colpa. Ma ti condanno lo stesso.

Credit Foto: Lèa Jiqqir