Scarno, algido, minimale, dominato da esili ma solide architetture e astratti geometrie, “Beat Pyramid” si rivela un disco immediatamente piacevole da ascoltare ma non facile da descrivere. Mentre in giro si legge che la maggiore influenza su questi giovanissimi nuovi indie-idoli è stata sicuramente quella di Mark E. Smith e dei suoi Fall (il nome della band deriva dal brano “New Puritan”), forse invece sarebbe il caso di tirare in ballo gli Wire più allucinati, quelli di “154”, per intenderci. Inoltre, i These New Puritans sin da subito sono stati frettolosamente infilati nel filone nu rave klaxoniano. Vero è che la compilation “Future Love Songs” conteneva tra gli altri, anche un brano dei Puritans e uno dei Klaxons.

Ma Questi Nuovi Puritani mostrano nei loro brani pose seriose, quasi severe, che si amalgamano però da dio con le loro soluzioni electro-rock. Le ossessioni per la numerologia, per le teorie sulla cospirazione e per il matematico, filosofo ed occultista inglese John Dee non devono far pensare a intricate e cervellotiche dissertazioni. I testi si basano per lo più su opprimenti, ipnotiche ripetizioni di versi spesso ermetici (su tutti, quelli di “Elvis””…cosa mai vorranno dire?), come in una sorta di linguaggio in codice costituito da frammenti enigmatici riflessi all’infinito che una volta ricomposti insieme potrebbero assumere un reale significato. Anche se in certi casi tutto questo ci sembra più che altro un gioco fine a se stesso, la musica creata dai quattro giovinastri conserva un certo misterioso fascino, addirittura depistante quando irrompe nel lettore una freddissima “Numerology” graffiata da fraseggi ripetitivi e ammorbata dalle parole dell’ostinato androide-bambino senza cuore Jack Barnett. Il brano è sorretto da ritmiche che definiremmo grime, come in “Swords Of Truth” (sobrio delirio apocalittico il cui titolo riporta direttamente ai Wu-Tang Clan, assai stimati dal gruppo), “Infinity Ytinifni” o ” £4″, afflitta da rantoli e singulti elettronici, culminante in un accumulo caotico di reiterate declamazioni isteriche, riffetti malevoli e suoni acidi.

Nel resto dell’album incontriamo una wave aliena e alienante, memore in alcuni casi, è bene aggiungerlo, anche della lezione delle band della Factory, di cui fagocita certe intuizioni storpiandole in maniera perversa. L’asciuttezza delle tracce (che tra l’altro sono in media piuttosto cortine) fa sì che spicchi in particolare la postpunkeggiante e fortemente propulsiva sezione ritmica, vedi due numeri impressionanti come l’epilettica “Colours” e la splendida e agguerrita “Elvis”, mix di cruda cupezza atonale ed effervescenza electro. L’elettronica è messa in risalto soprattutto in “Doppelganger”, eterea strumentale (anche se sempre infestata da isterismi ritmici) fatta di gorgoglii, ribollimenti, riflussi, ritardi e dolci schegge di chitarra.

C’è spazio anche per una specie di malinconia malata, che sia quella di “Mkk3” (immaginate dei Bloc Party derelitti e lobotomizzati) o della struggente salmodia marziale di Costume.
Il suono dei TPN indica certamente una via più oscura e affascinante rispetto a tanti prodotti rassicuranti del panorama indie e nu wave/nu rave.
Imperfetto, furbo ma esaltante, “Beat Pyramid” ci lascia sperare in un futuro davvero radioso.