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Conviene prendere fiato ad un certo punto. Giusto per vedere quanta strada si è fatta. Fermarsi un attimo, piegarsi puntando le braccia sulle ginocchia e asciugarsi il sudore dalla fronte. Uno sguardo indietro. Qualche minuto. E poi subito ripartire. Jónsi Birgisson e compari hanno uno sguardo da mille chilometri e non affogheranno mai nelle certezze della loro strepitosa discografia.

Dopo quattordici anni di attività , cinque album, un documentario rugiadoso e milioni di copie vendute ai quattro angoli della Terra, i Sigur Rós hanno raccolto quanto di buono hanno realizzato in tutti questi anni mischiandolo con ambizioni covate da tempo e che già  nel precedente “Takk” iniziavano a prendere forma. Di primo acchito “Meà° Suà° à Eyrum Vià° Spilum Endalaust” (che tradotto vuol dire: ‘Con Un Ronzio Nelle Nostre Orecchie Suoniamo All’Infinito’, ndr.) appare come un immenso calderone, dove trovano spazio le dilatate atmosfere degli inizi e la voglia di costringere entro la forma canzone prettamente poppeggiante le cosmiche visioni d’Islanda. Ineccepibile trovata, non c’è che dire, quella di non fossilizzarsi su di un’unica prospettiva, cercando nuovi spazi vitali puliti e lussureggianti come le ampie vallate che si aprono tra le aspre insenature della terra d’origine.

C’è, però, qualcosa in più in questo disco, che fa compiere un balzo in avanti alle Rose della Vittoria: questo è un vero e proprio concept album, uno scrigno che ha l’ambizione di raffigurare su tela sonora l’Esistenza, scandendo le tre fasi principali di essa. L’album si muove su tre suite, tre ampi movimenti che assecondano la visione chiara che si dipana attorno alla voce flautata di Jónsi, essere androgino in perfetto assetto artistico con gli Dei del canto.
Si parte con il primo blocco di canzoni, tambureggianti, dionisiache, ubriache di ritmo al limite del tribale, fragorose alterazioni primitive che prendono in prestito movenze copiate a bambini che corrono spericolati per poi schiudersi in melodie giocosamente folk-pop che rappresentano la Giovinezza, l’età  tattile per antonomasia, con poche regole in testa e molta vitalità  da far esplodere all’aria aperta. Una bella soddisfazione per Orri Páll Dà½rason, finalmente protagonista e libero di sfogarsi con classe sulle sacre pelli. Tutto è suonato ad un livello superiore sotto l’attenta regia di Flood, venerato maestro della produzione, deus ex machina di buona parte del rock’n’roll che c’ha nutrito negli anni ’90.

Tutto scorre e niente rimane uguale. Nell’incompresibiltà  rassicurante di un linguaggio che solo la nostra parte razionale stenta a riconoscere, scivoliamo nel cuore dell’album: l’Età  Adulta, i fili da tendere, l’ampia costruzione che portiamo avanti tra mille affanni come direttori d’orchestra trafelati, come madri che fanno quadrare il cerchio contro le regole base della fisica quantistica. E qui viene fuori la mastodontica cifra sonora dei Sigur, la sensibilità  che culmina negli studi di Abbey Road insinuandosi nella splendida “àra bátur” e nei suoi 68 orchestrali della London Sinfonietta che danno vita ad un poema musicale epico che si amalgama alla perfezione con il coro della London Oratory School Schola, ultimo ostacolo per essere trasportati in un altrove maliconicamente tinto d’azzurro. Energia trasbordante e delicatezze architettoniche.

E poi la chiusura, la Vecchiaia, la parte meditabonda, quella che si vive ad un livello inferiore di volume, ma, non per questo priva di intensità . Anzi è proprio a questo punto, nel momento in cui s’abbassano le luci, che viene fuori una parte mai troppo sbandierata dai folletti islandesi, quell’appeal cantautorale che passando tra le loro mani viene snaturato ed elevato a momento liturgico, in un requiem che sa scaldarsi negli intrecci sinfonici di chi non ha mai smesso di soffrire. Perchè rimanere narcotizzati ascoltando ‘Ilgresi’ è un lusso che si possono permettere in pochi.

Chiudo facendo mie le parole di un grande scrittore americano, William Faulkner, dedicandole a Jónsi Birgisson: Egli aveva la voce di un uomo che richiedeva di essere ascoltato non tanto con attenzione quanto in silenzio.
Epitaffio perfetto per l’unica band capace di suonare a dieci metri da terra senza risultare inconcludente.
Anche questa volta la freccia scoccata ha colpito il suo centro: un disco mastodonticamente aggraziato.