La fotografia di un’icona, la storia di una band assurta a mito, il racconto di un’epoca, la tragedia di un uomo: da qualunque angolazione si scelga di analizzarlo, “Control”, il film di Anton Corbjin sul leader dei Joy Division Ian Curtis (finora distribuito solo all’estero che a settembre arriverà  anche nelle sale italiane), resta un capolavoro.

Basato sul libro di Deborah Curtis “Touching From A Distance” (edito in Italia da Giunti col titolo “Così Lontano, Così Vicino”), “Control” convince per il lineare rigore della regia, per la splendida fotografia in bianco e nero, per la capacità  di raccontare, oggi, un pezzo importante della storia musicale inglese e insieme il disagio di un uomo, senza dare alcuni tipo di giudizio ed evitando di ridursi alla mera celebrazione dell’artista. Attraverso la sua opera, Corbjin (conosciuto come il fotografo delle rockstar, qui all’esordio come regista), sembra quasi voler affrancare i tormenti di Ian da quelli tipici di tanti artisti maudit. Lo Ian Curtis di “Control” (interpretato da uno straordinariamente somigliante Sam Riley) è, prima di tutto, un ragazzo cresciuto troppo in fretta, che si ritrova a vivere drammaticamente problemi molto concreti e ben poco filosofici: una moglie sposata da giovanissimo ed una figlia arrivata troppo presto; un’amante da cui non riesce a staccarsi; l’epilessia; le pressioni del successo. In un certo senso, la pellicola smitizza l’immagine con cui moltissimi fan hanno idealizzato Curtis, quella del classico artista depresso che si toglie la vita perchè annoiato dall’ordinaria banalità  del mondo.

In tal senso è sufficiente osservare l’inizio del film, nel quale il regista mostra il futuro leader dei Warsaw adolescente nella Manchester dei primi Settanta. Il giovane Curtis non è poi così diverso da molti coetanei della sua epoca: parla poco con i genitori, adora Iggy Pop e David Bowie, si sballa con quello che trova, scrive poesie e lavora sodo come impiegato all’ufficio di collocamento. Appena incontra la ragazza giusta, se ne innamora e la sposa.
Poi, quasi per caso, su richiesta degli amici Bernard Summer e Peter Hook, si ritrova cantare nei Warsaw. Da qui inizia la parabola del “mito” Ian Curtis, che il film riproduce fedelmente: dall’esordio sul palco all’incontro con il boss della Factory Records Tony Wilson, che prima li ospiterà  nello storico show di Granada Tv “So It Goes” e poi li metterà  sotto contratto con la sua etichetta; dal primo attacco epilettico all’incisione di “Unknown Pleasures” con Martin Hannett (che nei pochi minuti in cui appare viene mostrato “dispotico” come nei racconti del gruppo); dall’incontro con Annek Honore (Alexandra Maria Lara, già  co-protagonista de “La Caduta”) alla profonda crisi che questo provocherà  nel matrimonio di Ian, fino al tragico epilogo.

In “Control”, la musica e i testi dei Joy Division segnano ogni momento cruciale nella vita di Curtis. Emblematica, in tal senso, è la sequenza in cui a Ian appare per la prima volta chiara la crisi che lo separerà  da Deborah (Samantha Morton), sottolineata dai glaciali versi di “She’s Lost Control”. Grazie alle competenze musicali dei protagonisti (Riley è il cantante dei 10.000 Things), nel film tutti i pezzi vengono eseguiti ““ in modo più che convincente – dagli attori. Oltre ad essere un ottimo cantante, tra l’altro, Riley interpreta in modo stupefacente anche le movenze compulsive con cui Curtis si dimenava durante i concerti, drammatico presagio dei gravi attacchi epilettici che ne mineranno l’equilibrio fisico e psicologico.
Una particolare attenzione, infine, viene data agli oggetti che, anche quando vengono mostrati solo per qualche istante, in “Control” contribuiscono a definire la personalità  del leader dei Joy Division. Come nelle prime sequenze, quando il regista mostra la libreria di Curtis, in cui fa bella mostra “Crash” di J.G.Ballard (Simon Reynolds ha notato come, in effetti, la chitarra di Barney Summer evochi il metallo ferito e impenetrabile di “Crash”: contorta, deformata, divaricata, strappata). O come nella scena che anticipa il lugubre suicidio, nella quale Ian guarda alla Tv “La Ballata di Stroszek” di Werner Herzog, il suo regista preferito. Il disagio di Stroszek, al quale nella scena mostrata portano assurdamente via la casa, sembra riflettere il dolore di Ian, che come il protagonista del capolavoro di Herzog, non è in grado di gestire le problematiche che la vita gli pone davanti.

Di incredibile bellezza, infine, il piano sequenza finale, in cui la camera mostra prima la disperazione di Deborah per poi “ascendere” – seguendo la linea perpendicolare di una ciminiera ““ verso il grigio cielo sereno di Macclesfield.
Nel dvd prodotto dalla Weinstein Company e dalla Genius Products in nostro possesso, molti sono gli extra di rilievo: dalla possibilità  di seguire la pellicola con il commento del regista al “making of”; dalle performance “live” comparse nel film ai video originali dei Joy Division; dai trailers ad un video dei Killers che suonano una cover di “Shadowplay” fino ad un’intervista esclusiva al regista. In essa, Corbjin spiega così i motivi lo hanno spinto a realizzare “Control”: “Control” è un film personale e ai miei occhi non è un film musicale. Nel 2004, mi sono preso quattro mesi di pausa per realizzare un libro sugli U2 che avevo fotografato per ben 22 anni. Seduto da solo a casa a guardare i provini delle foto scattate agli inizi degli anni 80, ho ricominciato a “sentire” quel periodo: il vento che soffiava mentre aspettavo l’autobus, la disperazione di non avere un luogo degno di essere chiamato casa, essere senza soldi, e quel magico rito di andare a comprare un disco e ascoltarlo subito. Da allora – prosegue Corbjini tempi sono molto cambiati ma quelle sensazioni mi sono tornate subito in mente, compreso il fatidico 1979, anno del mio trasferimento a Londra. All’epoca desideravo fortemente cambiare aria e così quando uscì l’album dei Joy Division “Unknown Pleasures”, capii che dovevo lasciare l’Olanda e trasferirmi nel luogo in cui era nata quella musica.

Due settimane dopo il trasferimento in Inghilterra, scattai la fotografia ““ oggi famosa ““ dei Joy Division alla stazione della metropolitana. A ripensarci, è una storia veramente incredibile soprattutto pensando ad un ragazzo che si trasferisce in un altro paese, conosce e fotografa il gruppo musicale che è all’origine del suo trasferimento e qualche decennio dopo dirige un film che parla di loro.
In un certo senso ““ conclude il regista – è come se avessi chiuso il cerchio e che questa fase della mia vita, dominata dai desideri e dalle emozioni che provavo da adolescente, si fosse conclusa. I Joy Division e Ian Curtis hanno avuto un’importanza fondamentale per me in quel periodo della mia vita e quando me ne sono reso conto, ha capito che avrei dovuto realizzare questo film.