Seconda parte di quello che fu concepito da subito come un doppio album, “The Stand Ins” è – già  dalla copertina – la metà  complementare di “The Stage Names”, pubblicato giusto un anno fa. Abbandonati i toni melodrammatici dell’album che li ha resi in qualche misura celebri – “Black Sheep Boy” – la band texana indugia di nuovo in ritmati episodi country/folk e riprende il suo racconto estremamente concreto di personaggi del mondo dello spettacolo, vite vissute sopra e sotto un palcoscenico. Quello che interessa agli Okkervil River non sono le gesta epiche di grandi artisti, ma le storie private, i drammi insieme unici ed ordinari, “The crawling way real people sometimes are” per usare le parole che chiudono il disco.

Dopo la breve strumentale “Stand Ins, One” – ripresa in seguito dalle egualmente atmosferiche “Stand Ins, Two” e “Stand Ins, Three” – è l’incedere tipicamente Okkerviliano di “Lost Coastlines” ad aprire questo secondo atto. La ritmica da marcetta di Travis Nielsen a dare il passo allo strumming acustico della chitarra di Sheff, una piccola melodia di banjo e un sincopato basso vintage donano un credibile suono country all’insieme. Will Sheff come suo solito estende e comprime i versi sulle melodie, spesso virando con grazia oltre il limite che sembrerebbe possibile, estendendo periodi su intere strofe, giocando su metafore di mare per raccontare la vita di una band in tour che sembra aver perso il senso e la direzione, eppure non smette sera dopo sera di suonare ancora una volta la sua canzone. La voce che si alterna al microfono è quella di Jonathan Meiburg, che proprio quest’anno ha deciso di lasciare la band per dedicarsi al side project Shearwater.

Se “Singer Songwriter” è una sarcastica e attualissima invettiva contro gli hipster figli di papà  che tengono Poe e Artaud sullo scaffale ma non sono altro che persone vuote (You’ve got taste, you’ve got taste / What a waste that that’s all that you have), la seguente “Starry Stairs” – già  rilasciata come outtake del precedente disco – segna uno dei picchi di emozione dell’album. Ideale continuazione di “Savannah Smiles”, racconta la morte della pornostar Shannon Wilsey, suicidatasi dopo un grave incidente che l’aveva sfigurata. Mentre un accompagnamento di fiati ostinatamente upbeat risuona squillante, la voce rotta di Sheff interroga senza dare risposte, in un flusso di coscienza cinematografico che trasmette un dramma che non è soltanto personale, il caleidoscopio della persona che vive dietro il suo personaggio. Il lungo rallenty di “Blue Tulip” chiude la prima parte dilatando all’infinito l’attesa del fan che ha finalmente l’occasione di incontrare il proprio idolo. Ma è molto più convincente la seguente “Pop Lie” che su power chord stoppati e strette rullate costruisce la perfetta parodia della hit da classifica e delle bugie che cantano in coro l’autore e il suo pubblico: He’s the liar who lied in his pop song / And you’re lying when you sing along.

La ballata al pianoforte “On Tour with Zykos” e la successiva “Calling and Not Calling My Ex” sono altri due esempi di showbiz raccontato a riflettori spenti, la prima sovrapponendo a un giro di pianoforte piuttosto lineare e a un trattenuto climax di archi il racconto in prima persona di un artista depresso e arreso di fronte ai fallimenti personali, la seconda portandoci di nuovo a battere il tempo seguendo il commovente punto di vista di un ex-fidanzato che, quando lei raggiunge il successo, si trova a misurare la distanza che li separa e insieme la perfetta identità  con la ragazza che conosceva. La chiusura del disco torna a raccontare una morte, stavolta quella di Bruce Wayne Campbell – icona glam rock degli anni ’70 ucciso a 36 anni dall’AIDS. Un’elegia che parte sulla sola voce trattenuta e straziata di Sheff, una ritmica lontana lentamente avvolta dal pianoforte che solo dopo tre minuti esplode in un breve ritornello ebbro di fiati e si richiude in una coda epica e sognante.

“The Stand Ins” è così un perfetto Lato B per questo libro di racconti fotografati appena un metro più in là  della luce dei riflettori, e se il risultato è un disco più raccolto e meno irresistibile del suo predecessore, rimane il dubbio se si tratti poi di un difetto o se invece la nuova copertina non racchiuda l’altra faccia degli stessi personaggi, l’uomo scheletrico steso al buio con una bottiglia vuota in mano è d’altra parte lo stesso del quale avevamo visto la mano aprirsi illuminata dal sole. Sotto l’acqua stagnante, ci indicavano gli Okkervil River già  nel precedente lavoro, si nasconde qualcosa di più tetro ma altrettanto intensamente, profondamente umano.