Era mattina e si fermò il tempo. Il giro circolare di molecole infreddollite dalla nottata piovosa rallentava il percorso della sua caduta. Ora v’era un cielo pulito, azzurrità  regale che si dipanava come un lenzuolo fresco di bucato. Disteso sul prato allungavo le gambe per abbandonarmi totalmente al rimescolio generale. Le ore non esistono. Minuti e secondi sono leggende metropolitane – mi ripetevo con malcelata costanza -. Gli anni sono l’effetto nostalgico di una pubblicità  riuscita male per barrette dimagranti al cioccolato. Non so cosa voglio diventare e mi fermo ad aspettare.

Dall’altra parte dell’oceano, a Kirkland – sobborgo di Seattle – per la precisione, c’è chi invece è cresciuto con un’idea fissa in testa: divenire un raggio di sole che riscalda la chitarra di Neil Young. I Fleet Foxes non saranno mai alla moda, masticheranno polvere di provincia per tutta la durata del loro suono ipnotico. Chitarre sgocciolanti, atmosfere fine anni ’60 in gioiosa combinazione con fraseggi a là  Beach Boys, voli elettro-acustici tra i sogni bucoli di Crosby Stills Nash & Young ed intuizioni LedZeppeliniane stile “Starway To Heaven”, consacrano le Volpi americane a sacerdoti di quieti orchestrali nelle contemplazioni di pianure che brulicano di animali al pascolo.

Gli intrecci vocali messi in atto da Robin Pecknold e compagni sono di una sublime levità , un rincorrersi continuo con volute gospel macinate attraverso la malinconia di uno spazio inafferabile nel suo dilatarsi alla pari di palloncini che si gonfiano all’infinito. Nostalgie racchiuse nelle ipnosi pastorali di ‘Sun It Rise’ o della cristallina ‘Tiger Peasant Mountain Song’, accarezzano visi infiammati dalla febbre, visioni armoniche di un mondo bucolico colto nell’attimo del suo sorriso.
Prodotti da Philip M. Ek – già  apprezzato supervisore di Mudhoney e Band Of Horses – i cinque americani ridefiniscono proporzioni ed allineano il loro mondo su binari di celestiale perfezione formale, prim’ancora di riscaldare sistemi circolatori intorpiditi con canzoni di disarmante bellezza.

Robin Pecknold si dichiara un parassita d’armonie, un vero fanatico del gospel, genere di cui ha divorato dischi e cassette in gioventù, quando, a causa della miriade di allergie di cui soffriva, era costretto a passare intere settimane da solo a casa. Tanto rimuginare trova il suo spazio vitale in un disco denso, complesso, nutriente, onirico, intriso fino al midollo del folk più puro, lussureggiante, genuina prova di una band che farà  molto parlare di sè in futuro.
Più gira nello stereo quest’album, più si consolidano verità  ineluttabili troppo spesso solo ipotizzate: il tempo non esiste, i tramonti ci consolano, questi dischi ci accarezzano.

I Fleet Foxes arrivano dopo il fuoco e le maree, organizzano il cielo e lo spalmano a pezzi sulla nostra pelle avida.