Un colpo del tuo dito sul tamburo scatena tutti i
suoni e dà  inizio alla nuova armonia.

Arthur Rimbaud (“A Una Ragione”)

Non date la colpa ai figli se questo mondo è una palla infuocata votata all’autodistruzione. Non pregate per conversioni che non arriveranno mai. E’ un tempo sciolto nell’acido sentore di merce avariata. Vento tagliente, montagne nere e terra bruciata accompagnano respiri ansiosi, i nostri, quelli della progenie perduta. E’ la fine che sta arrivando o è l’alba di nuovi giorni. L’apocalisse cavalca il tuo sorriso migliore tambureggiando come i bassi drogati dei Black Angels. Angeli decaduti, dannati a mangiare polvere e sollevare sabbia nel deserto. Il nome scelto da questi americani abrasi dalla mescalina non lascia spazio a troppe fantasie e quasi ci sarebbe la tentazione di passare la mano a questo giro. E qui commettereste il peggiore degli errori. Per l’occasione conviene darsi una rinfrescata, ripulire la faccia dal sangue raggrumato, passare una mano di grasso tra i capelli tirati indietro, inforcare un paio di lenti scure ed aspettare che la tempesta sonora faccia di noi un amplificatore di immagini.

E’ uno spettacolo degno del crepuscolo migliore osservare dall’alto un ammasso di lamiere incandescenti che s’accartocciano regalmente su se stesse. Un fiume di musica che i cinque texani padroneggiano con disinvoltura tossica, miscelando amore folle per la psichedelia e le pastosità  da rock session anni ’70, affogando l’amaro calice in un calderone melodico dolcemente suadente. Verrebbe voglia di lasciar perdere l’ennesimo gruppo che fa della brodaglia rumorosa brindando ai tempi andati, ma tra le nervature di quest’album c’è come la spiegazione di un mistero, una visione piana delle cose che ipnotizza subitaneamente. Una lieve ebbrezza dondola tra tempie dolenti non appena la macchina ritmica – guidata dalla batteria serrata di Stephanie Bailey – entra in circolo, macinando sussulti tellurici in sequenza. Alex Maas più che cantare sembra essere uno sciamano malmostoso che oracola dal fondo di una caverna, dissolvendo le sue esortazioni in echi magnetici. La parte migliore del terzo disco degli Angeli texani si mostra nel mucchio di chitarre mandate a distorcersi ed a riverberare tra le vallate di monti Appalachi, dove un guppo di sbilenchi squinternati danza in preda a favolose allucinazioni.

Sembrerebbe un bel gioco di elettricità  persa nello spazio, ma scavando nel fondo del pentolone sonico si scorge una predilezione per melodie armoniche inscatolate nei perimetri della forma-canzone, tralasciando – tranne che nella conclusiva e rindondante “Snake In The Grass” – il facile giochetto del rock psichedelico di abbandonare un brano aperto ad infiniti svolazzi finali. Valore aggiunto e nota di merito doverosa se l’appunta sulla giacca l’organetto in stile Doors di Kyle Hunt, il quale dona profondità  e spessore a gran parte dei pezzi di “Directions To See A Ghost”.
I figli smarriti ed inconcludenti smettono di piangere nel catrame putrescente e vischioso dei Black Angels, fissano ubriachi il soffitto stellato che grattuggia intonaco, e solo per stasera il cemento profuma di polvere di stelle.
Che la psichedelia ci mangi tutti.