C’è poco da girarci intorno: gli Animal Collective o li ami o li odi. Le mezze misure non sono ammesse: o la va o la spacca; dentro o fuori; geni od impostori. Per capirci qualcosa, bisognerà , come al solito, dar retta ad Orazio e cercare nel mezzo la verità .
La band di Baltimora ha, nell’ultima decade, rivoluzionato il concetto di musica ‘pop’, mettendo nel frullatore cinquant’anni di melodie per poi buttare il tutto in un acceleratore di particelle. Dissacrazione e sperimentalismo sono i dogmi sui quali si regge un progetto che dura oramai dall’inizio del nuovo millennio, nove album e centinaia di concerti sparsi su e giù per il globo terracqueo.

Tanto per non smentirsi, quindi, i quattro del Maryland danno alle stampe un ulteriore concentrato di psichedelia mescolata sapientemente col candore vocale dei Beach Boys, sintetizzatori anni ’80, luci stroboscopiche ed una manciata di caramelle gommose alla fragola scadute.
C’è più confusione in un disco degli Animal Collective che in un incrocio stradale all’ora di punta; ma è un pastiche sonico formidabile, sul quale si dipanano le voci incrociate di Panda Bear (aka Noah Lennox) e di Avey Tare (aka David Portner), i quali giocano, così, a rincorrere Brian Wilson e le paradisiache trame vocali degli altri Boys. Da questa mescolanza di sensazioni nasce una dicotomia affascinante, dove l’elemento umano gareggia con l’inerzia fredda delle cose, rivendicando emozione e fragilità  dinanzi all’intrico universale. Persi tra le loro allucinazioni nei deserti americani, Noah Lennox e soci miracolosamente mettono a fuoco 11 canzoni, che sfrecciano come schegge impazzite tra basi ossessive, fruscii techno, tastiere in gran spolvero ed un sentimento adolescenziale mai sopito, che sa descrivere lo stupore con una levità  d’altri tempi.

Mascherati sotto le mentite spoglie di un gruppo di inguaribili fricchettoni, gli Animal Collective, consapevolmente o meno, conservano un’anima fragile che profuma di torta di mele, di pomeriggi passati su verande di legno ad osservare il cangevole crepuscolo, in attesa di colorare le notti sintetiche della città , scorta in lontananza. Magari è solo una sensazione da cui si viene sfiorati, mentre si cerca la via d’uscita in “Guys Eyes” o in “Also Frightened”, ma è un’illusione da tenere stretta per farsi coinvolgere ancor di più nella stramba discoteca messa su da Panda Bear, Avey Tare, Geologist e Deakin. Come in un ipotetico Lato B di un disco dei Fleet Foxes messo su un grammofono spuntato, dopo esser stato lasciato a decomporsi in una vasca di acidi e gelatina verde sotto al sole, si esce fischiettando dal tour de force, sazi e gonfi di dolci al limite del collasso glicemico, certi di poter sparare al cielo scontroso una filastrocca come “Lion In A Coma”, vessillo luccicante di “Merriweather Post Pavilion”. Se c’era da confermare a gran voce il ruolo totemico di tutta la scena ‘altra’ del panorama americano e non, gli Animal Collective il loro urlo lo sparano più forte che mai.

Geniali, divertenti, plasticosi, colorati, drogati, psichedelici, festaioli, iconoclasti, creativi, simpatici. Tutto vero, tutto giusto. Ma alla lunga, un po’, stancano. E questa, per ora, è la maggior pecca di una band quanto mai solida ed aperta alle mille sfaccettature dell’ignoto.