Se nei suoi film c’è sempre qualcuno che vuole fregare e che resta fregato, prima o poi probabilmente un maestro della copia come Guy Ritchie troverà  qualcuno intenzionato ad imitarlo, o metterà  i suoi strambi personaggi, o le sue situazioni paradossali, al centro di un pastiche di omaggi e citazioni.
In realtà  già  c’è chi ha tentato l’impresa, considerando che in fin dei conti il regista ha già  fatto scuola, disseminando epigoni come Joe Carnahan e Paul McGuigan, rispettivamente responsabili dei mediocri “Smokin’ Ace$” e “Slevin – Patto Criminale”.

Per quanto lo si possa ammirare, il suo cinema nasce già  vecchio: sulla scia di Danny Boyle o di Quentin Tarantino, ma anche del Martin Scorsese di “Mean Streets” o di “Quei Bravi Ragazzi”, il prode Guy Ritchie imbastisce dei picareschi western di gusto leoniano, in cui c’è sempre qualcuno più figlio di puttana (o più ‘rocknrolla’, se si vuole imitarne il suo linguaggio) degli altri, riesce a farla franca e a beccarsi tutto il bottino. Per quanto possano piacere – e piacciono molto, bisogna riconoscerglielo – i suoi film sembrano essere sempre studiati nei minimi dettagli per affascinare il pubblico con dialoghi fatti apposta per essere assimilati, imparati e ripetuti dagli spettatori più desiderosi di ricalcare le epiche gesta dei protagonisti.

Per di più, il nostro sembra così consapevole di aver preso in prestito troppo, da dover caricare le situazioni dei suoi film di dettagli surreali o grotteschi, o di uscite ad effetto che hanno il solo risultato di rendere alcuni momenti quasi esasperanti, come la sequenza dell’inseguimento con i russi).
In poche parole, l’arte di Ritchie come sceneggiatore è quella di cercare la formula, la battuta indimenticabile, il gergo più adatto a fare breccia sulla sua platea, e cerca ovviamente di prendersela con quelli che sono gli obbiettivi preferiti dei bulli che potrebbero restarne impressionati: immigrati, checche, disabili e via dicendo. Cerca di creare personaggi che incarnino uno tra i maggiori evergreen letterari: il bel fuorilegge, tanto furbo da restarsene beatamente al di fuori dai vincoli della società  senza pagare il prezzo della punizione.

Tuttavia, non è la troppo facile assenza di ‘politically correct’ che gli si può attribuire, ma una vera e propria mancanza di senso cinematografico: anche qui, Ritchie ha l’ansia di apparire cool a tutti i costi, e ha cercato negli anni di elaborare uno stile fatto di cose non sue. Potrebbe darsi delle arie e autodefinirsi un eclettico, o meglio ancora un virtuoso manierista. Eppure, i suoi tagli di inquadratura sbilenchi ed insoliti, il suo montaggio frenetico spesso accompagnato da musica ricercata, il modo di manipolare il tempo della visione con accelerazioni e ralenti non sono niente di nuovo.
Di più: oltre a non essere originali, pagano il fatto di non essere nè funzionali nè azzeccati a quello che vuole rappresentare.
Il suo cinema sarebbe irresistibilmente divertente, se Ritchie non dovesse già  – è la dura croce devono portare – come un maestro e non riuscisse a sopportarne la responsabilità .
Gli si potrebbe dire di cercare di variare, ma Ritchie lo ha già  fatto.

Con scarsi risultati: con “Rocknrolla” ha voluto tornare su un terreno sicuro.

Locandina
Regia: Guy Ritchie
Sceneggiatura: Guy Ritchie
Fotografia: David Higgs
Montaggio: James Herbert
Interpreti: Gerard Butler, Tom Wilkinson, Thandie Newton, Mark Strong, Idris Elba
Origine: Gran Bretagna, 2008
Durata: 114′

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