è una sorpresa trovarsi di fronte alla retrospettiva di un gruppo di cui non si è mai sentito parlare, non tanto per ignoranza personale, ma proprio per l’esigua fama ottenuta dallo stesso. è una sorpresa scoprire che tale raccolta è uno scrigno di meraviglie, che i Pumajaw sono non solo ricchi di talento, ma pure sperimentatori, accaniti ricercatori di un suono che sappia amalgamare folk ed elettronica; tutto questo però lontano dalle secche di un efebico indie, di un ormai perso sguardo bucolico. Tutt’altro, attraverso le composizioni del duo inglese (già  autore, nonostante le difficoltà  distributive e i cambi di nome, di ben otto album, quattro dei quali, usciti tra 2000 e 2006, sono qui rappresentati) si affronta un’idea di folk che è innegabilmente contemporaneo, capace di affiancare a una meravigliosa voce femminile trame polverose, esigue, digitali eppure dal sapore atavico.

Fautori di queste strane musiche, che sembrano provenire direttamente da un medioevo prossimo venturo o da una realtà  alternativa polverosamente steam-punk, sono la vocalist e poli-strumentista Pinkie Maclure e John Willis, tuttofare, producer e precedentemente batterista dei Loop. Il lavoro sullo stile si compatta coerente tanto che in queste quattordici tracce è possibile scorgere il maturare dei pensieri, lo svilupparsi delle intenzioni senza avvertire passaggi bruschi o svolte improbabili.

Ecco allora che la partenza affidata all’inquietudine leggermente electro di “Sorcery” pare l’inevitabile start di un viaggio che si farà  sempre più scarno e intimo con la voce di Pinkie che ricorda da molto vicino Christa Paffgen in arte Nico (tanto che “Memorial Crossing” pare i Velvet passati sotto una pioggia nucleare).
In “Buttons” troviamo una Marianne Faithfull ancor più maledetta rileggere gli ultimi Portishead, sempre la musa inglese sembra di sentire nel tenebroso arpeggiare di “Frozen In Sleep”. Echi dream-pop avvolgono l’esile struttura ed il sussurrare magico di Pinkie in “Harbour Song”.

Altrove è un elettronica sperimentale, minimalista e sognante come in “Outside It Blows” e “Downstream” a sorreggere la sempre ispirata interpretazione. Estremamente desolante, ma ricchissima di fascino nel suo quasi impercettibile rumorismo, è “I Take The Long Way Round”.
E come resistere al ritmo dinoccolato, quasi uno spoglio e notturno rock’n’roll intriso di divertito malessere, di “Stranded”?
Le perle, intrise di poesia e delicatezza, di umanità  e profondo disincanto, si susseguono continue tanto che bisognerebbe spendere lodi per ognuna; il consiglio, davvero sentito, è quello di ascoltare questo “Favourites”, di dargli tempo, concedergli pazienza ed esso vi ripagherà  con le infiniti sfumature di una musica che non si capisce da dove provenga, ma sicuro vi porterà  lontano.