OUTDOOR (ELEFANT) STAGE: SUCRETTE, TENDER TRAP, FITNESS FOREVER, THE FRANK & WALTERS, SPEEDMARKET AVENUE, CAMERA OBSCURA, LA CASA AZUL
INDOOR STAGE: DOWNDIME, LITTLE MY, FRIENDS, ONE HAPPY ISLAND, MIGHTY MIGHTY, BUTHCER BOY, CATS ON FIRE, EMMY THE GREAT
CHURCH STAGE: THE ROCKY NEST, RAY RUMOURS & THE NO EYED DEARS, LABRADOR, KEVIN McGROTHER, THE SPECIFIC HEARTS, THE LOVELY EGGS, ALASKA, WAKE THE PRESIDENT
TRAINS: LOYAL TROOPER, LET’S WHISPER, POPPY & FRIENDS, ROY MILLER
DJs SETS AFTER THE BANDS: HOW DOES IT FEEL TO BE LOVED?, SOUL & SIXTIES SPECIAL, BONNY & CLYDE

Nuvole bianche e sole che si fa sentire sulle braccia scoperte. La seconda giornata del festival si apre intorno all’ora di pranzo. Sono una trentina le band elencate nel programma di oggi, altrettante suoneranno domani. Impossibile pensare di vederle tutte: i concerti sui tre palchi si sovrappongono. Sarà  necessario fare delle scelte. Il pubblico accorso è decisamente più numeroso di quello della serata d’apertura. Non bisogna pensare a folle oceaniche però. E’ un piccolo festival, indipendente, basato perlopiù sul lavoro dei volontari e i nomi più grandi in cartellone sono Camera Obscura, Art Brut e Teenage Fanclub. Alla fine si conteranno cinquecento spettatori, duecento in più dei trecento dello scorso anno. Un successo.

I primi della giornata, sul palco al coperto, sono i Downdime, da Leeds. Verrebbe quasi da dire dreampop, ma poi sorge il sospetto che sia un tentativo poco riuscito di seguire le orme del recente ritorno shoegaze. Un paio di pezzi ci sono, ma per la maggior parte del set manca compattezza e decisione. Dopo di loro, sullo stesso palco, capita di vedere i Little My. Ora, siamo d’accordo che il sottotitolo di questa tre giorni è “An indiepop festival”, ma quando è troppo è troppo. Una banda di discutibili personaggi addobbati con costumi da animali, alle prese con strumenti giocattolo e canzoncine twee senza capo nè coda. Vorrebbero essere gli I’m From Barcellona ma non arrivano al livello degli amici del Fantabosco. Esco per raggiungere il palco all’aperto dove stanno suonando i Sucrette, duo giapponese dedito esattamente al tipo di synth-pop zuccheroso che ci si aspetta da un gruppo in arrivo dalla terra del Sol Levante. Una cantante con vocina squillante da cartone animato, tastierine e, di tanto in tanto, basi elettroniche martellanti. Divertenti tutto sommato, ma anche abbastanza innocui.

I treni continuano ad arrivare, scendono nuove persone. Il pubblico è distribuito sui tre palchi, c’è sempre qualcuno che suona, spesso più di uno contemporaneamente. Ma non c’è frenesia, il nervosismo non è di casa. L’ambiente è rilassato, pacifico. La giornata incantevole. Un veloce cambio palco e l’Elephant Stage è pronto ad accogliere i Tender Trap. La band di Amelia Fletcher acquista due nuovi membri (Katrina Dixon, già  in Sally Skull e Police Cat, e Elizabeth “Hello Darlin” Darling) e una resa dal vivo sorprendentemente compatta. Si parla di indiepop nello stile di quello prodotto dalla Sarah Records negli ultimi anni ’80 inglesi, con aggiunta qualche goccia di rock. Coinvolgenti, semplici e del tutto in tono con il festival. Approfitto del nuovo cambio palco per dare un’occhiata alla tenda allestita per i banchetti sul fondo del prato, prima della chiesa. Non può mancare qualche acquisto al fornitissimo stand della Elephant Records, e anche le ragazze che vendono spille, accessori, vestiti ed altri oggetti autoprodotti sembrano riscuotere un buon successo. E’ tempo per i primi dei ben due rappresentanti dell’Italia al festival: i Fitness Forever. La band campana si presenta con sette componenti e distribuisce sorrisi e melodie mediterranee e solari. Canzoni leggere, contagiose e dispensatrici di buon umore. Non stupisce che proprio la Elephant Records li abbia voluti per pubblicare il loro album d’esordio “Personal Train”.

E’ tempo di andare a vedere cosa succede sul palco allestito nella piccola chiesa. Non è facile entrare: lo spazio è poco e da quando sono iniziati i concerti ci sono costantemente persone a cui tocca restare fuori dalla porta. Quando riesco a sistemarmi dietro a uno dei banchi di legno, sta finendo il set di Kevin McGrother. Ed è un peccato essere riusciti a sentire solo un paio di canzoni, perchè il suo folk teso e scanzonato, con tanto di violino, è davvero divertente e ricorda i Pogues più allegri durante una serata al pub. Poco dopo è il turno di Labrador, cantautore danese armato di sola chitarra acustica e qualche base elettronica. Folk soffuso che fa venire in mente Ant, ma con più malinconia o Denison Witmer, ma con meno attenzione per la melodia. Esco per prendere una boccata d’aria, ma resto nei dintorni della chiesa. Il cambio palco questa volta è un po’ più lungo, destinato ad accogliere gli Specific Heats. Non ho idea di chi siano ma li prendo subito in simpatia. Un po’ perchè riconosco la tastierista: suonava nei Besties, visti in un set parecchio incisivo e divertente due anni fa al festival di Emmaboda, in Svezia. Un po’ perchè si presentano tutti e quattro muniti di mantellini rossi e troppo piccoli, legati attorno al collo come supereroi caduti in disgrazia. Un po’ perchè il cantante e chitarrista è chiaramente fuori di testa, e nel giro di due minuti riesce a rompere una corda e far saltare la testata di un amplificatore, portata fuori dalla chiesa in tutta fretta, ancora fumante. Nonostante i contrattempi, però, il loro garage-pop, ripieno di anni ’60 e con qualche accenno di psichedelia, convince in pieno per impatto, convinzione e chiarezza d’idee. Abbandonata la chiesa, faccio in tempo a sentire da lontano un paio di pezzi degli svedesi Speedmarket Avenue, visti pochi mesi fa in Italia e sempre in ottima forma, e dirigo verso il palco coperto dove stanno suonando i Butcher Boy. John Blain Hunt, il ragazzone alla guida della band, ha un modello preciso in testa che risponde al nome di Steven Morrissey. Più che agli Smiths i Butcher Boy sembrano rifarsi proprio alla carriera solista del Moz, semplificando la parte musicale in una chiave a volte quasi folk. Nonostante su disco non siano affatto male, qui stentano però a convincere: toni troppo soffusi e una dose di intimismo francamente eccessiva.

Ma non è per i Butcher Boy che ho raggiunto il palco coperto, bensì per la band che è in programma subito dopo. Guadagno un posto tra le prime file quando ancora la strumentazione deve essere montata. Dietro una piccola tastiera e all’asta di un microfono compare una ragazzina, pantaloncini scuri, camicia azzurra, le maniche arrotolate e un piccolo papillon nero, visibilmente intimidita dalla vista del pubblico. Arriva anche il resto della band, quattro ragazzi a chitarra e voce, basso, ancora chitarra e batteria. Anche loro non sembrano molto a loro agio di fronte al pubblico. Almeno fino a quando non iniziano a suonare. I Cats On Fire sono autori del concerto migliore del festival. Un set travolgente, come non capita spesso di vederne. Il loro nuovo album “Our Temperance Movement” è una raccolta di canzoni fulminanti, un concentrato di pop liberatorio e contagioso del tutto all’altezza del precedente “The Province Complains”. E’ un trionfo sin dall’apertura, con quel piccolo gioiello che è “Horoscope”. Mattias Björkas, alla voce, è un giovane David Bowie senza freni: incapace di star fermo, dispensatore di un numero infinito di smorfie ed espressioni facciali, trascina con sè il resto della band, e tutto il pubblico lo segue, rapito in un attimo dall’entusiasmo e dalla sicurezza con cui questi cinque finlandesi stanno sul palco. Mettono insieme una scaletta che non concede tregua, e il boato che accoglie la fine di ogni canzone è ogni volta più forte di quello precedente. Una volta finito il tempo a loro disposizione sono costretti a gran voce a riprendere il palco per un’ultima canzone. E ne vorremmo ancora e ancora. Indimenticabili.

Ancora preso dall’entusiasmo dirigo verso il palco all’aperto. Stanno suonando i Camera Obscura. La luce ha già  cominciato a calare, il tramonto non tarderà  ancora molto. Scendo la collina, faccio qualche foto, resto in prima fila per un paio di brani, poi risalgo fino in cima, mi siedo. Suonano “James”, una ballata triste dal loro ultimo “My Maudlin Career”. Una delle mie tracce preferite. Sul palco sono composti, sicuri, non regalano molto allo spettacolo. Lasciano andare la musica, non chiedono altro. Non chiedo altro.

La giornata volge verso il termine, ma faccio in tempo ad intrufolarmi di nuovo tra i banchi di legno della chiesa per assistere al set dei Wake The President. La band di Glasgow, capitanata dai gemelli Bjorn ed Eric Sandberg, mi aveva molto incuriosito su disco e il loro concerto finisce per convincermi definitivamente. Il loro è un live intenso e deciso, che prende il folk-pop delle loro canzoni e ne esalta la componente melodica, debitrice di nomi come Orange Juice e Go-Betweens. A chiudere la serata, sul palco dedicato alla Elephant Records, è il concerto de La Casa Azul, uno dei nomi di punta dell’etichetta spagnola. Dal vivo La Casa Azul è una one-man-band guidata da Guille Milkway. Il ragazzo è armato di chitarra, tastiere, effetti elettronici e una serie di bei visuals che scorrono sul maxischermo alle sue spalle. La musica è un elettro-pop zuccheroso e luccicante, pieno di melodie facili facili e richiami euro-disco: mi ricorda pericolosamente le canzoncine che si possono ascoltare nelle serate dei villaggi vacanza. Nonostante tutto, però, lo spettacolo non manca: Milkway tiene il palco con sicurezza e una grossa mano arriva dai video: colorati, divertenti, senza dubbio adeguati alla colonna sonora. A pensarci, non è un modo cattivo per chiudere questa splendida giornata.

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