Scampati alla loro personale Era Glaciale, i Dinosaur Jr. si godono la loro seconda giovinezza. Incanutiti, calvi o appesantiti, non importa. Lo spirito è l’unica cosa che conta.

“Farm”, un lavoro ancora più solido del suo predecessore, “Beyond”, ci ha mostrato una band definitivamente rinata, sicura dei propri mezzi, ritornata compatta e agguerrita, caciarona come un tempo, e sempre dotata di quello sgualcito, stralunato romanticismo che l’ha resa famosa.

Sul palco del Circolo degli Artisti c’è un muro di amplificatori che accoglie in un abbraccio elettrico e materno J Mascis, immobile e con l’aria compassata. L’uomo delle pelli Murph è già  nudo e madido dopo poche canzoni. Per un J svogliato c’è invece un Lou Barlow irrequieto e scomposto, motore della band e suo elemento più appariscente. Si parte andando parecchio indietro nel tempo, con l’antica “Severed Lips”, ed è subito un tuffo al cuore. Con “Raisans” la band inizia a carburare e a prendere confidenza col palco. “Kracked” sa ancora di pelle giovane, voglia di vivere e furia impacciata. J è un tutt’uno con la sua chitarra, divorato dal suono allucinante degli amplificatori sparato addosso ad un pubblico in estasi, con i timpani presto maciullati e il cuore che scende fin dentro lo stomaco e risale in gola di continuo. I sentimenti sfogati durante le canzoni non sembrano influenzare l’attitudine di Mascis sul palco. Fa giusto qualche smorfia durante i momenti più virtuosi, ma nulla di più. Sembra davvero un pesce fuor d’acqua. Ma che superlirici assoli da brivido escono da quelle mani però, (una cosa è sentirli su disco, un’altra è vederli eseguiti dal vivo), poetiche appendici dotate di vita e pensiero propri. La sua voce è quasi abulica, stropicciata, esce a fatica (l’acustica, bisogna dirlo, non ha aiutato molto”…). Lou al microfono invece è più sicuro, quasi epico, più caldo e aggraziato nel timbro. è lui che conduce la band e offre il pulsante cuore dinosauresco alla gente sotto il palco. “Little Fury Things” e “Feel The Pain” incantano e travolgono, tanto dolci e quasi sognanti, quanto stropicciate e rumorose. Anche Mascis pian piano si scoglie, lo si legge in quel volto un po’ buffo, lo si legge nelle braccia sempre più nervose, come se le mani avessero incominciato a comunicare con il resto del corpo e a trasmettere impulsi di vita in ogni altro dipartimento del corpo. La splendida, nuovissima “Pieces” incendia le prime file ormai impazzite investite dalla dolceamara tempesta elettrica (il resto del pubblico però è rimasto per tutto il concerto abbastanza calmo e composto). In “Freak Scene” nè il chitarrista dalla lunga chioma bianca nè il nerdone Lou stanno più nella pelle. L’uno ciondola instancabilmente mentre è intento a dilaniare la povera sei corde, l’altro saltella come un quindicenne al quale hanno detto che la sua performance verrà  lanciata in mondovisione. Non poteva poi mancare la celebre cover di “Just Like Heaven” dei Cure, eseguita verso la fine della scaletta. Però qui i tre vanno un po’ fuori sincrono: Mascis va davvero troppo veloce e Murph e Barlow difficilmente riescono a stargli appresso.

Ormai sordo e con una stranamente piacevole emicrania volgo verso la via di casa, consapevole che riacquisterò l’udito solo tre giorni dopo.

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