Il diritto di dirci come sarebbe andata a finire, di immaginare un universo parallelo a quello falsamente riprodotto dai nostri sensi dinanzi ai nostri corpi stanchi. Il diritto, dicevo, ce l’avremmo di sapere cosa sarebbe successo se non ci fossero mai stati i Mother Love Bone e poi i Pearl Jam, se le cose fossero rimaste come era giusto dovessero rimanere.
I Mudhoney probabilmente si sarebbero sciolti alla soglia del nuovo millennio, Eddie Vedder avrebbe continuato a fare pieni di benzina e magari l’avrebbe pure comprata questa benedetta pompa. Kurt Cobain avrebbe suonato cover dei Green Day in garage e soprattutto io non avrei mai comprato quell’orrore a quadrettoni messo due volte per impressionare una ragazzina.

Magari poi alla fine qualcuno avrebbe svegliato tutti i personaggi dal loro torpore e li avrebbe convinti a mettere su un supergruppo ma non sta a noi dire se la cosa avrebbe poi funzionato.
La risposta non ce la danno neanche stasera i Mudhoney che, tra l’altro, ci fanno pure una domanda: Come te lo spieghi che alla soglia dei ’50’ sono una forza della natura che neanche Elvis dei giorni andati ?. Sto per rispondere quando “The Money Will Roll Right In” (dei Fang) taglia in due la folla: chi sta lì per pencolare poggiato al muro e chi sta sudando alcol tra le cosce di una musica che va dal punk al garage passando per il blues. Insomma: il grunge.

Splendido Mark Arm: l’apostrofo elettrico tra le parole ‘rock’ e ‘roll’, sembianza mezzo uomo e mezzo Iggy Pop, passa la prima parte del set libero dalle incombenze chitarristiche a contatto col pubblico celebrando l’eucaristia materiale con l’immor(t)ale I’m going to Hollywood /They’ll see that i’m so good / I won’t care how I feel / And I’ll get to fuck Brooke Shields. Beata gioventù. Me ne sto lì a prendere appunti mentali, che puntualmente dimentico dietro di me una volta uscito dal locale, quando mi accorgo che la metà  che prima non si muoveva ha abbandonato i muri ed è tutta sotto il palco: l’accozzaglia grunge più sudata degli ultimi 10 anni. E di certo la flanella non aiuta la traspirazione.

“Next Time”, “Inside Job”, e Arm prende in mano la sei-corde; quasi l’accarezza, sembra confidarle cose dolci, sistema la cinghia sulla spalla, attraversa la folla con lo sguardo, ancora una carezza e tortura lo strumento con “You Got It”. Volevate il grunge: eccovelo ! Non lo dice ma lo pensa, è palese. Seattle è lui e quell’improbabile band che si porta dietro. Al basso Guy Maddison sembra il tecnico IT che tutti vorremmo avere: pacioso, tranquillo, non morde se gli riempi la cache di donne nude e virus e, anzi, ti masterizza i CD dei Pissed Jeans mentre ti dice che dovresti passare a Mac. La chitarra di Steve Turner pende sul petto di un impiegato del catasto con l’hobby della musica. Invece ho visto gente diventare scema cercando di riprodurre quel fuzz nudo e rauco come uno ‘scusa Ameri‘ che fa venire i brividi puntuale ogni stupida domenica.
Dan Peters è il meno appariscente (pensa un pò…) e suda contento su “Blinding Sun” e “Let It Side” come fosse la prima volta: mai un sorriso e nessuna parola. Perfetto.

I Mudhoney sono questi e sono rimasti solo loro a portare in giro la pioggia dello stato di Washington in giro per il mondo. Il tripudio è d’obbligo, il sudore è sale sulle ferite degli anni che se ne sono andati, io sono tornato addosso al muro per riprendere fiato e loro ricominciano col riff storto di “Touch Me I’m Sick” che è poi l’inno della generazione flanellata molto più di una “Nevermind” fagocitata dalle folle e la pubblicità . I bis aggiungono poco allo stato di trance disordinata, di palpitazioni adolescenziali in corpi di uomini, di ‘fragole e sangue’ senza un ideale che sia uno, dell’ennesima ‘generazione X’ che rimpiange quello che (non) è stato e lo fa sognando di essere Mark Arm, di poter urlare dio quanto mi piace odiare, scivolare dentro e fuori la grazia, oh yeah, oh yeah‘ (“In ‘N’ Out of Grace”).

Foto Thanx to Al De Perez.

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