Provate per un attimo a calarvi nei panni del menestrello di Houston, o di Caracas se preferite, anche se presumere di sapere che cosa possa passargli per i meandri della mente è impossibile, ragionando di un artista che ha sempre fatto dell’imprevedibilità  una delle sue carte vincenti.
Comunque sia, proviamo a riporre in un cassetto un contratto fresco fresco, appena firmato con la Warner, una delle ormai ridotte a quattro multinazionali della musica, in crisi, certamente, ma sempre una casa discografica che, nel bene e nel male, ci ha regalato in passato gioielli e pietre miliari in grande quantità .

Avete un cospicuo numero di brani pronti e un passato tale da permettervi di fare, in un certo senso, quello che vi va, che vi passa per la testa, perchè loro, mettendovi sotto contratto, non potevano certo credere di avervi domato, voi, il principe dell’antifolk, nato per essere sempre libero e indomito. Certamente loro hanno corsi dei rischi, con questa operazione.
Voi, invece, cosa avete da perdere? Molto, tanto, anzi parecchio. Sono sicuramente in tanti pronti ad impallinarvi al primo passo falso, tutti quei critici che amano solo l’hype, l’ultima moda o l’ultima tendenza, che amano crearla e poi abbandonarla appena è diventata costume, o appena ha smesso, fosse anche solo per un attimo, di cambiare pelle, incessantemente. Oppure gli altri, quelli che devono a tutti i costi giudicarti solo se riempi di grandi significati o di grandi ideali quello che in realtà  è solo rock’nroll.

Allora a questo punto avete deciso, che si fottano tutti, anzi, che si diano una calmata, perchè avete voglia di assaporare ancora una volta pace e tranquillità , alla faccia di ambizioni e false speranze.
Ok, a questo punto ritorniamo nei nostri miseri panni, e cosa ci ritroviamo tra le mani? L’ultimo, fresco di stampa, sesto album di Devendra Banhart, generoso come sempre nel minutaggio e nei contenuti. Ricco, pantagruelico nei riferimenti, ma semplice e spontaneo nei suoni, cristallino e diretto come forse non è mai stato, immediato e accattivante anche per chi non ha mai masticato sonorità  “alternative”.

La cricca di musicisti che l’accompagna è la stessa del precedente lavoro, e a loro si unisce stavolta, per la produzione, il già  conosciuto ed apprezzato Paul Butler (se ancora non li conoscete, andate a sentirvi i Bees, il suo gruppo, con quel gioiellino che è “Octopus”). E forse è giusto partire proprio da qui per capire i brani del disco.
Da una parte infatti la ritrovata familiarità  con musicisti già  conosciuti, e ormai amici, sfocia in una naturalezza di esecuzione dei brani spesso più che evidente, come se li sentissimo suonare e registrare delle canzoni quasi in presa diretta. Non è così, certamente, perchè la pulizia dei suoni e la favolosa bilanciatura delle timbriche dei vari strumenti è frutto di accurata produzione, e qui il nostro Butler ha certamente giocato la sua parte. C’è infatti un comune denominatore, sotto molte delle tracce del disco, una sonorità  che evoca con cura e amore anni sessanta e settanta, senza però essere mai scontata o dozzinale nella citazione o nella struttura del singolo pezzo.

In questa luce, l’attacco spectoriano di “16th & Valencia Roxy Music” trasfigura veloce nei Fleetwood o negli stessi Roxy dei tardi settanta, la dolcezza catstevensiana della prima parte di “Veronika” lascia il passo ai ritmi tropicali di una samba velosiana. Il lieve funky alla Motown del primo singolo estratto, l’accattivante “Baby”, ha la sua controparte nella psichedelia elevatorsiana di “Rats”. Altrove troviamo, a più riprese, i sixties dei Byrds, dei CSN&Y e di Donovan, in pezzi come “Goin’ Back”, “Maria Leonza” o “Walilamdzi”.
Diversi, ma allo stesso tempo in linea coi suoi primi lavori, alcuni pezzi centrali, come “First Song For B” e “Last Song For B” o in chiusura come “Brindo” e “Meet Me At Lookout Point”, acustici e lievi, ma dove evidente risalta l’esperienza accumulata in questi anni.

Bene, ecco quindi un disco che “‘capitalizza’ (parola terribile, ma che…rende) tutto quello che Devendra è stato fino ad adesso. Lasciamogli tirare il fiato, lasciamolo rilassare con i suoi amici per quest’oretta che ci ha regalato. Poi, alla prossima puntata, saprà  stupirci ancora una volta, senza bisogno di nascondersi dietro sigle e copertine ‘primitive’ per sfogare la sua innata stravaganza.

Cover Album

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What Will We Be
[ Warner Bros – 2009 ]
Similar Artist: Beck, Bees & Bear (Grizzly)
Rating:
1. Can’t Help But Smiling
2. Angelika
3. Baby
4. Goin’ Back
5. First Song For B
6. Last Song For B
7. Chin Chin & Muck Muck
8. 16th & Valencia Roxy Music
9. Rats
10. Maria Lionza
11. Brindo
12. Meet Me At Lookout Point
13. Walilamdzi
14. Foolin’

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