Le prime dieci canzoni delle venti proposte dai Dredg durante la performance al Black Out di Roma provengono tutte dal loro controverso ultimo album, “The Pariah, The Parrot, The Delusion”, un lavoro complessivamente più leggero dei precedenti ma in realtà  ricco come sempre di un sacco di sfumature e nuovi elementi da scoprire ad ogni nuovo ascolto. Si parte con la stessa tripletta posta che apre il disco, composta dalla cupa e monolitica “Pariah” (che stempera i toni tesi delle strofe nel solito ammaliante e struggente ritornello), dalla bislacca strumentale “Drunk Slide” e da “Ireland”, devastante come un gancio al volto e inafferrabile e cullante come un sogno consolatorio e rivelatore. “I Don’t Know”, “Gathering Pebbles” e “Mourning This Morning” nella veste live acquistano una aggressività  e una incisività  che mancano un po’ alle versioni in studio, grazie anche ad un Gavin Hayes davvero in stato di grazia. Il cantante riccioluto non perde mai un colpo, sfoderando incredibili capacità  canore e un timbro di voce tanto potente quanto raffinato. Ma il bello deve ancora venire.

Dopo la breve, atmosferica “Stamp Of The Origin: Horizon” (il toccante epilogo di “The Pariah”…”) arriva il trancio di pezzi provenienti da “Catch Without Arms”: l’accoppiata “Ode To The Sun” e “Catch Without Arms” infiamma il pubblico del Black Out, che era rimasto un po’ impalato durante la prima metà  del concerto, e che ora accompagna Gavin durante gli splendidi refrain. Un pubblico che, ipnotizzato da “Jamais Vu”, travolge di immenso calore la band quando questa si lancia nella corsa a perdifiato di “The Tabank Is Hot Lava”. Poi, andando ancora più indietro nel tempo, giunge il momento di celebrare il secondo album dei quattro di Los Gatos, “El Cielo”, dal quale vengono estratti “Same Ol’ Road”, “Eighteen People Living In A Room” e le a dir poco spettacolari “Triangle” e “The Canyon Behind Her” (qui ci vorrebbe uno stadio, altro che un club, con tutto il rispetto”…), al confronto dei quali i pezzi dell’ultimo disco sfigurano davvero. Tensione, rabbia e soavità  si mescolano tra di loro, i quattro paiono più nervosi (ed è un bene), la voce di Hayes si carica di una dolcezza e di un senso di afflizione che toccano le corde più martoriate e profonde del cuore.

Quando arriva “Cartoon Showroom”, con le sue malinconie e i suoi brividi, si ha la sensazione di scivolare dolcemente dentro un ricordo che sembrava destinato a rimanere per sempre sepolto nelle sabbie del tempo. E dietro quel ricordo, lo sfocato ma radioso orizzonte della vita che verrà .

p.s. Un particolare ringraziamento ai ragazzi della Relative Foundation

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