Il rapporto tra l’Italia e i Piano Magic è per certi versi magico. Tante le date per la band per questo tour italiano, tanto il calore emanato dal pubblico che ha riempito quasi del tutto il Circolo degli Artisti, tanti i sorrisi rilassati sui visi pur stanchi di Glen Johnson e soci. Non dimentichiamo poi il rapporto di stima e di amicizia che lega il combo britannico ai nostri Giardini di Mirò (proprio quest’anno è uscito in cassetta un ep solista di Johnson a tiratura oltremodo limitata per la Secret Furry Hole del chitarrista della band di Cavriago, Jukka Reverberi).

Delle tre performance dei Piano Magic che ho visto nel locale capitolino, questa è quella che probabilmente mi ha convinto di più. Ormai c’è un grande affiatamento tra i membri del gruppo (nel quale ormai si è inserita in pianta stabile la delicata chanteuse francese Angèle David-Guillou) e come detto la confidenza con l’ambiente italiano e nello specifico romano fa sì che i musicisti riescano a suonare tanto con scioltezza quanto con grande intensità . Glen Johnson poi è una sorta di macchietta, un curioso figuro tondeggiante dal volto pacioso che si mette a raccontare buffi aneddoti tra un pezzo e l’altro e non riesce a trattenersi dal prendere in giro affettuosamente il suo pubblico con un sobrio sarcasmo tipicamente british. Insomma, un anti-eroe musicale il cui modo di porsi è lontano anni luce da quello di certi antipatici indierockers intellettualoidi d’oggidì.

Si parte fortissimo con due pezzi tra i più scintillanti della nuova raccolta d’inediti “Ovations”, ossia la spedita “Recovery Position” e il capolavoro decadente “Blue Hour”, una perla nera funestata da sottili ma turbanti raggi di luce (questa è sia un’immagine interiore, sia una descrizione delle luci mai troppo invadenti che illuminano appena il palco del Circolo durante l’esecuzione del brano, atte a creare un’atmosfera sospesa e crepuscolare). Segue un altro pezzo poderoso e pure uno dei più cupi della band, ossia “Jacknifed”, che ipnotizza letteralmente gli astanti, i quali saranno risvegliati dalle note setose di “Love+Music” e poi cullati dalle braccia tremanti della ciondolante e sottilmente nervosa “Dark Horses”. La scaletta è davvero ben congeniata: seguono la fragorosa, ariosissima “Great Escapes”, poi l’elegante duetto tra Angele e Glen, “Incurable”, e le agili “Faint Horizon” e “The King Cannot Be Found”. Perfetto poi il rifacimento di “Advent” dei Dead Can Dance, potente, tagliente e oscura al punto giusto, anzi, se mi permettete, quasi migliore della versione originale. Prima del bis il gruppo esegue una avvincente “The Last Engineer” (l’opener di “Part-Monster” del 2007) che esplode nella parte finale in uno spaventosa turbine elettrico in cui si incrociano le scie suicide del synth della David-Gillou e i fiammeggianti viluppi delle chitarre di Johnson e di Franck Alba.

Ma in fondo suoni e parole hanno solo il potere di riempire momentaneamente il vuoto lasciato dal silenzio, senza poter curarci veramente il cuore, senza poter allontanare veramente la paranoia o far dimenticare la violenza: questo il messaggio che da anni canta Glen sui palchi d’Europa nel cavallo di battaglia “(Music Won’t Save You From Anything But) Silence” (primo pezzo dei due del bis) che sfocia verso la fine in un ritmico battimani collettivo tra urla di delirio e teste forsennatamente ciondolanti.
è poi la volta dell’arcigna “On Edge”, altro gioiellino del recente “Ovations”, nero sigillo che chiude l’ottima performance dal vivo dei Piano Magic, una band preziosissima ma di cui si parla sempre troppo poco, legata innegabilmente alla wave ottantiana ma capace di mantenere al contempo una sua meravigliosa originalità .

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