C’è qualcosa di così spaventosamente ancestrale nella musica di Ben Frost da togliere il fiato. In quei loop di ruggine che si propagano con metriche strascicate e ossessive, guidate da una determinazione quasi rancorosa, suonano come ferite improvvise che si aprono sui delicati suoni lunghi di matrice ambient che fanno da sfondo.

Anche negli episodi di più dichiarata e disarmante fragilità  (“Teo Needs A New Pair Of Shoes”), Frost riesce nell’emotività  a mantenere un austerità  distaccata che costringe l’ascoltatore all’attenzione. Non siamo davanti a quel tipo di musica ambient che avvolge accomodante ma distratta. Calarsi tra i drone e i strumenti a corda che affiancano il certosino lavoro al laptop di “By The Throat” è come immergere le mani in un ruscello gelido, contemplando nel turbinio opalescente, dove la mano inizia misteriosamente a scomparire o trasfigurare sotto le screziature dell’acqua.

Affascina quel qualcosa di preternaturale e incontaminato forse perchè manca del tutto la componente uomo essendo le uniche voci in “By The Throat” degli ululati di lupi o quelle voci campionate come lamenti banshee persi nel vento. La musica di Ben Frost sembra nascere da un esperienza interiore talmente totalizzante e sentita da portare il musicista a lasciare la nativa Australia per stabilirsi in Islanda, un luogo dalle suggestioni fisiche e mentali sicuramente più vicine alla sua musica. Il risultato finale è questa collezione di brani strumentali capace di raggiungere dei picchi di autentica potenza evocativa. Un album livido e in qualche misura doloroso ma che in fondo racconterà , semmai ci sarà  qualcuno ancora ad ascoltare, molto dei nostri giorni. Per qualcuno probabilmente anche troppo.

“By The Throat” è il canto dell’ultima balena spiaggiata, un corpo lucido disegnato nei nei fluidi intrappolato su un manto di ruvida sabbia nera. E’ in quell’ occhio buio e antico come la notte, fisso per la prima volta su un cielo plumbeo di composti chimici. Sola, intorno un muto corteo funebre di buste di plastica e flaconi con facce di bambini sorridenti. Noi siamo il pianeta che sta morendo.

Credit Foto: Salar Kheradpejouh