Non spaventatevi, non stiamo parlando di metal, anche se pure qui le chitarre abbondano.
Non è certo la prima volta che dal passato saltano fuori gruppi e dischi passati inosservati o addirittura peggio; quest’estate per esempio dagli archivi RAI è stata finalmente edita la session che Robert Wyatt tenne negli studi di Radio3 (recuperatela, sì). Per il gusto di sfoggiare un po’ d’inutile erudizione possiamo anche fare il nome di Arthur Russell, genio enorme e sublime, scoperto e celebrato appieno quasi un decennio dopo la sua scomparsa.

Ma ora parliamo di Detroit e di tre fratelli afroamericani. In ordine cronologico penserete prima al soul della Motown e poi alle varie generazioni techno ed in entrambi i casi sarete ampiamente fuoristrada: infatti Danny, Bobby e David Hackney dopo un inizio di classico apprendistato r’n’b finirono stregati da altre band cittadine che già  immaginavano un rock-sound avanti negli anni, progenitrici di quasi tutto il calderone alternative che ci ha accompagnato fin qui, ovvero Stooges e MC5. Il trio alzò quindi i volumi e si scelse un nome che facesse a cazzotti un po’ con tutto e tutti, Death appunto, e dopo aver incendiato garage e palchi propose un breve demo alla Columbia che si mostrò interessata a patto che i tre cambiassero la propria ragione sociale, cosa che non avvenne e chiuse loro le porte del successo.

Non ve l’ho detto? Tutto ciò accadde ben trentacinque anni fa, nella prima metà  dei seventies.
Ma torniamo al presente e ringraziamo la City Slang che, giunta in possesso dei sette brani, dà  finalmente alle stampe “For The Whole World To See”: nei venticinque minuti abbondanti di questi solchi (non è vero, ma avrebbe dovuto essere così) troviamo l’hard-rock tipico dell’epoca riletto attraverso un’acuta sensibilità  black e una furia quasi punk (a confermare i Death come diretto antecedente di tutti quelle band in bilico tra radici afroamericane e iconoclastica furia bianca).
I riferimenti agli altri gruppi della Motor City sono innegabili (bastino a testimoniarlo il giusto mix tra psichedelia e irruenza di “Let The World Turn” e i sentori glam di “Rock’n’Roll Victim), ma il futuro è dietro la porta: il blues sfilacciato e fottutamente rumoroso di “You’re A Prisoner”, la vena progressiva di “Where Do We Go From Here ” trattenuta da secchiate funk e soprattutto lo straordinariooo combat-rock di “Politician In My Eyes”.

Fossero usciti all’epoca li avremmo definiti seminali, ma per una strana coincidenza di ipocrisia ed intransigenza ciò non è avvenuto: riscoprirli ora non è solo dovere di cronaca, ma necessaria filologia rock e operazione davvero goduriosa.