Ascoltando questo trio inglese si ha subito l’impressione che il “‘tessuto spazio-tempo’, come lo avrebbe chiamato il leggendario Doc di zemeckiana memoria, si sia piegato in due, collegando gli anni ’80 e il 2000 in un istante. Il punto d’incontro, precisamente, sarebbe la stretta di mano tra Ian Curtis e lo stuolo di seguaci di prima data con il garage rock più recente (White Stripes?) imbellettato anche con un po’ di elettronica.

Ce lo dice subito chiaro e tondo la traccia d’apertura, “Magnetic Warrior” e la sua diretta consecutiva in tracklist, quasi in unica striscia vincente, “Shark’s Tooth”, ballabile frammezzo tra gli Wire, i Franz Ferdinand e gli Arctic Monkeys (si va beh, anche a tanti altri), con lo sguardo comunque (molto) più rivolto agli anni ’80 che alle ultime band dell’ondata new wave. C’è poco da ridere, perchè questi fanno sul serio. “Chunk” si danza con movimenti lenti e neanche troppo aggraziati, sarà  il beat minimale o i dozzinali sintetizzatori che fanno comunque la loro porca figura, anche per la resa catchy del brano stesso, che ne guadagna anche sulla durata apparentemente esagerata. No, non lo è. E’ forse un dato di fatto che la Domino è una casa discografica troppo monotematica, ma l’ultimo disco delle ‘scimmie artiche’ risuona di nuovo quando ascolti “Bite It & Believe It”: per l’ultima volta, finalmente.

In “Hunt You Down” stiamo ascoltando i Babyshambles più devoti a Curtis post-suicidio, ma non è questo l’apice del disco. Quando i Joy Division più frenetici hanno già  lasciato spazio alle incursioni garage di Captain Beefheart, degli Who e degli Wire (garage come Meg e Jack lo hanno portato in essere), ci sentiamo effettivamente vicino ai due White. E’ il caso del punkettone, anche un po’ Ramones volendo, di “Wild Strawberries”, un hit da concerto, o del ‘brano-doppio’ “6.1 You Have A Right To A Mountain Life/6.2 One Up On Yourself”, con i suoi echi di pesante brit-pop svezzato a colpi di depressione cronica alla New Order, Clash decaduti o post-punk tipo Gang of Four o roba simile. Paragoni a parte, questa accozzaglia funziona davvero. Chi l’avrebbe mai detto? C’è chi, come me, si è dichiarato più volte stanco di sentire gente che idolatra Ian Curtis a tal punto da volerne imitare le gesta (solo musicalmente, per fortuna), un po’ come facevano in molti con Cobain, ma anche stavolta c’è chi ha saputo dimostrare che ne vale davvero la pena, perchè questo disco punterà  di nuovo i riflettori contro Domino e le sue uscite sempre a passo coi tempi.

Lunga vita agli ABO e a band come queste. Che il garage sia con voi, aspettando che Jack White la faccia finita di fare milioni di progetti paralleli e si dedichi di più alle strisce. Con buona pace del povero Morgan.