Proviamo a fare un piccolo gioco. In un ipotetico triangolo musicale, con i nomi più gettonati della scena indie attuale, quelli per intenderci sulla lista di tutti e di cui tutti si fanno spolvero ascoltandoli e nominandoli, chi mettereste nei tre vertici? Personalmente, se dovessi decidere non avrei molti dubbi, almeno scegliendo d’istinto. Animal Collective da una parte (…nella punta della piramide, forse, anche se so che questo mi porterà  dietro sonori epiteti poco edificanti e riportabili…), Vampire Weekend in basso a destra e Grizzly Bear nel vertice rimasto libero. Al centro, equidistanti da tutti e tre, e quindi in un ottimale baricentro musicale, loro, gli Yeasayer.
E qui forse sta il principale problema dei quattro ragazzi di Brooklyn. Pur essendosi mossi un po’ prima dei loro cugini di New York nel recupero “alternative” di memorie e ritmi afro, mischiandoli e rinfrescandoli con sonorità  più urbane e moderne, ed impasti melodici e vocali non scontati, i nostri hanno goduto certamente di un più che discreto successo, rimanendo però un nome di nicchia, una band ben lontana dalla visibilità  e dalla stima di cui godono i loro tre riferimenti. Sicuramente meno ruffiani dei Vampire, con una fantasia appena meno allucinata e frizzante degli Animal ed una ricerca vocale meno colta e più ruspante di quella dei Grizzly.

Eppure l’ultimo disco, se ascoltato e ponderato con attenzione, contiene delle vere gemme, delle perle che fanno brillare l’intero lavoro, al quale va riconosciuta una buona dose di ricerca nella composizione dei brani , un’operazione di sovrapposizione di riferimenti e trovate incessante, anche se a tratti eccessiva.
La scommessa era quella di capire se dal vivo il tutto poteva essere riproposto con successo, senza perdere immediatezza e senza sbandare nel caos e nella cacofonia. Scommessa vinta, direi. Il concerto a cui ho assistito lunedì 15 marzo, in un Tunnel appena rinnovato e con un’impronta che, purtroppo, lo fa assomigliare ad altri locali da prendere con le pinze, quelli per intenderci che ti rispediscono a casa per le 23-23e30, così da permettergli una seconda serata, economicamente parlando, quel concerto, come dicevo, me li ha presentati in ottima forma, padroni della scena e della ricca strumentazione disposta sul palco.
Difficile dare conto del numero di tastiere presenti, delle macchinette che permettono di elaborare tutti i possibili tipi di suoni in ingresso, computer, pedali vari e di difficile inquadramento. Per fortuna, persino un paio di chitarre, un basso e copiose tipologie di percussioni, anche queste però dalla classica batteria alla moderna versione tipo drum-machine. Comunque, alla fine di tutta questa babele tecnologica, la musica c’è.

Moderni sandinisti e rude boys, omaggiano i Clash fin dal look, con la mimetica di Anand Wilder e la canotta brixtoniana di Ira Wolf Tuton. Più nerd il cantante e tastierista fondatore, Chris Keating, ed il batterista, nonchè notevole macchina ritmica della serata, Luke Fasano. Un quinto elemento, indaffaratissimo tra tastiere, computer, drum-machine, chitarra e percussioni varie, arricchisce il suono, mostrando ottime capacità  in stile “tuttofare”.
Le tracce dell’ultimo lavoro sono ovviamente al centro della scaletta, riproposte con buona fedeltà  e con qualche piacevole digressione, che permette di sottolineare le affinità  con la band sopra citata, più nello spirito forse che non nei suoni, e con l’altra grande presenza che aleggia per tutto il concerto, merito della propulsione ritmica ed elettrica che percorre incessante tutti i brani e che fece dei Talking Heads una delle band più innovative degli anni 70-80. In particolare l’apoteosi arriva verso la fine, dove basta chiudere gli occhi per immaginarsi al CBGB…e con una buona dose di fantasia, chiaramente.
Lasciatemi sognare, loro me l’hanno permesso per una sera, per poco più di un’oretta, finchè i gestori hanno rovinato tutto senza permettere ulteriori bis e la realtà  notturna milanese si è rilevata ben diversa da quella della big apple.

Un breve appunto per lo show di apertura, dove il buon Hush Hush ci ha deliziato con una curiosa esibizione più dance che vocale, visto che, salito sul palco, salutati i presenti e schiacciato il pulsante della sua personale scatola magica, è partita una favolosa base registrata, completa di suoni, voci e persino fragorosi applausi tra un pezzo e l’altro…potenza della tecnologia, per un provetto e moderno one-man-band.

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