In punta di piedi. Così si potrebbe definire la carriera fulminea dei Galaxie 500, trio bostoniano, durata quattro anni, dal 1987 al 1991, quando un periodo d’oro per lo stile musicale che i tre proponevano stava per esplodere con tutta la sua bellezza. In punta di piedi, sia per la repentinità  con la quale sono entrati ed usciti dall’industria discografica sia per le emozioni che il dream-pop che i tre propugnavano suscita nell’ascoltatore. Composizioni spesso semplici, dei Velvet Undergound (non a caso omaggiati con la cover di “Here She Comes Now”) dismessi, ma non rassegnati. E ora la Domino gli rende onore con la ristampa di tutti i loro album, raccolte e live compresi, in versione deluxe (doppio cd e, per gli aficionados, vinile).

Il viaggio dei Galaxie 500 parte nel lontano 1988 con un disco pubblicato dalla Aurora, intitolato “Today”. E le coordinate, che accompagneranno per tutta la loro carriera i tre sono chiare: musica essenziale, composizioni ridotte all’osso dal semplice suono di chitarra e riverbero, basso e batteria, mai aggressiva o invadente. Chitarra che però si lancia spesso e volentieri in cavalcate solistiche, coadiuvata da una base ritmica impeccabile (ad esempio il finale di “Parking Lot”). Dei novelli Nick Drake, se è ammesso il termine di paragone, catapultati in un periodo in qui più che le acustiche sono le chitarre elettriche a fare da padrone, specialmente nella scena indie a stelle e strisce in cui i Galaxie si muovono. Esemplare la cover di Jonathan Richman (altro richiamo di cui si sente l’eco in questi suoni), “Don’t Let Our Youth Go To Waste”: quasi sette minuti monocordi musicalmente parlando, ma intensissimi, tra feedback e un ritmo ossessivo. O basta ascoltare la “‘velvettiana’ “Tugboat” per rendersi conto che di sostanza, nonostante l’esilità  della musica, ce ne è. E molta.

L’anno successivo esce “On Fire”, dove la ripetitività , la quasi “‘trance’ dell’esordio viene ancora di più accentuata, quasi se gli Spaceman 3 virassero verso un pop sognante. I testi di Dean Wareham diventano ancora più significativi nel loro crudo realismo, si da ancora poco spazio alla voce di Naomi Yang (troppo spesso sottovalutata, troverà  più spazio nel successivo progetto Damon & Naomi, col batterista dei Galaxie Damon Krukowski). La produzione di Kramer (già  dietro la console di “Today”) rende il tutto vicino alla perfezione. La particolarità  del basso quasi new wave della Yang accostato alle ritmiche chitarristiche più propriamente indie di Wareham e i testi malinconici (basta leggere la straziante canzone d’amore “Isn’t It A Pity”) fanno dei Galaxie 500 un mondo a parte, in America come nel mondo intero.

Nel 1990 ecco “This Is Our Music”: il titolo, omaggio ad Ornette Coleman, dice tutto. Forse il meno “‘malinconico’ del lotto, si vira verso ritmiche e melodie più definite e meno rarefatte (il singolo, “Fourth of July”), quasi shoegaze (“Summertine”), piccole sperimentazioni fanno capolino (un synth in “Spook”, un flauto in “Way Up High”), e la presenza del “‘guru’ Kramer alla produzione si sente eccome. Poco dopo l’inizio del tour, Dean lascia la band e i Galaxie 500 finiscono la loro brevissima carriera (ognuno prenderà  la propria strada, Dean Wareham con i Luna, Naomi Yang e Damon Krukowski come già  detto continueranno insieme). Assieme agli album in studio da avere, per completiamo se volete ma meritano, il live Copenhagen, le “Peel Sessions” e la raccolta “Uncollected” (davvero sfiziosa l’ultima).