Voi non avete mai assistito a una cosa del genere.

John Cale è salito al piano e ha intonato “Frozen Warnings”, una lunga sequenza di parole e di immagini sulla vita vissuta al limite da Christa Paffgen, in arte Nico. Una scelta non casuale, la canzone forse più rivelatrice di un’artista che adesso avrebbe settant’anni, e che comunque a differenza di altri Miti non ha lasciato il ricordo di una bellezza congelata. Semmai quella di una morte non banale, fuori dai canoni del maledettismo. Che a suonare quella canzone fosse proprio John Cale, autore e coreografo del progetto itinerante “A Tribute to Nico”, non faceva che amplificarne significato e sottotesto. Lui che pure l’ha amata, forse il solo tra i Velvet Underground ad averlo fatto, e lui pure che l’ha salvata, regalandole un harmonium alla fine di quella stagione. Sarà  a partire da quello strumento che Nico scriverà  “The Marble Index” prima e “Desertshore” poi, generando il dogma della musica oscura e affermandosi definitivamente come cantante, possibilmente non per scelta di un megalomane in parrucca bianco platino.

Ad anni di distanza è stato proprio John Cale a chiamare a raccolta gli artisti più dotati in circolazione per rendere omaggio a una delle sue muse: lo scorso maggio a Ferrara, quest’anno a Roma con una lineup allargata (che non ha fatto rimpiangere l’assenza del bauhausiano Peter Murphy, mentre quella del compianto Mark Linkous degli Sparklehorse purtroppo sì). Come nel bellissimo film di Todd Haynes su Bob Dylan, “Io Non Sono Qui”, ogni artista sul palco della Sala Santa Cecilia ha incarnato un aspetto diverso di Nico: da Lisa Gerrad, come al solito teutonica e ancestrale, (molti fan dei Dead Can Dance in sala a giudicare dagli applausi), a una più malinconica Laetitia Sadler (Stereolab). Da una sofferente Joan Wasser (nota come Joan as a Police Woman), a cui è toccata l’esecuzione di uno dei brani manifesto di Nico, l’impegnativa “Janitor of Lunacy”, alle teatrali e assurde Cocorosie, che riescono a non scivolare mai nel baratro del fantasy pacchiano, malgrado le orecchie da elfo e il pizzetto da Belzebù, anzi. L’esecuzione di “Abscheid” da parte della Cocorosie numero uno è stato forse il momento più epico della serata.

A riflettere il lato maschile delle vicende musicali di Nico ci hanno pensato un cavernoso Mark Lanegan (quella voce, dio mio. come fa) e Jonathan Donahue dei Mercury Rev.

Il secondo atto si è aperto con “My Heart Is Empty” eseguita da Joan as a Police Woman al piano. Quando è finita si sono sentite due cose: i sospiri di circa mille persone e qualcosa che è andato in pezzi. In tutta quella sala dell’Auditorium, sì è sentito distintamente qualcosa che andava in pezzi. Poco dopo John Cale è stato raggiunto da Soap&Skin, che i meno cinici considerano la vera erede di Nico (tra questi, Cale stesso), chiamata in causa con una versione molto intensa di “Tananore”. A incorniciare il tutto la prestazione incontenibile di Donahue, in grado di incutere a tratti un sottile terrore. Di fatto, la paura è una sensazione che si è sempre adattata a Nico. Il vertice rumoristico e caotico innescato dal leader dei Mercury Rev ha spianato la strada a un finale prevedibilmente corale con tutti gli artisti sul palco a orchestrare una salmodiante “All That Is My Own” tratta da “Desertshore”, in un’atmosfera sospesa tra il reading e la messa. Alla fine delle cose, è stato un concerto doloroso, lancinante, gotico, solenne, inquietante, necessario ed elitario.

Voi non assisterete a una cosa del genere, mai più. Sappiatelo.

Video della Serata:

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