Avrei voluto una recensione di una sola parola per il nuovo disco degli Arcade Fire. Avrei voluto una recensione con una parola come PODEROSO scritta a caratteri cubitali, e niente più. Invece come sempre la musica nel bene o nel male ci spiazza, allora sembra ci voglia tutto l’arrovellarsi di critici e fan per descrivere la nuova attesissima uscita di Butler e soci.

“The Suburbs” lo ammetto, non è il capolavoro che attendevo ormai da tempo insieme alle folle globali. Non è certo “Funeral” e non è neppure “Neon Bible” ma forse proprio per questo non bisogna essere ingenerosi verso un lavoro che porta con se la pesante responsabilità  di due successi pieni, che hanno incontrato il riconoscimento assoluto di critica e pubblico. Gli Arcade Fire sono la band dell’epica contemporanea, la band che raduna tutti sotto un palco dove ogni cosa può accadere; tenore lirico, accenti quasi sinfonici e musicisti che passano da uno strumento all’altro senza soluzione di continuità : opulenza musicale. Gli Arcade Fire ci hanno regalato uno dei migliori dischi degli ultimi anni (“Funeral”, appunto) e hanno quella rara capacità  di entusiasmare e commuovere in modo corale scrivendo canzoni che diventano inni, ragion per cui non possiamo che riconoscere la loro indiscussa qualità  musicale, anche se si rimane un pò sconcerti al primo ascolto di “The Suburbs”. Sono degli Arcade Fire che assomigliano a tutti e a nessuno, che si sconfessano spesso e volentieri sgusciando dal proprio stereotipo. Come sempre accade in questi casi il disco può piacere molto, o molto poco.

“The Suburbs” a differenza delle sognanti atmosfere e della forte tensione emotiva dei precedenti lavori è un album descrittivo; i sobborghi, le periferie urbane evocate dal titolo sono originariamente quelle della Huston dell’infanzia di Butler ma sono più in generale quelle del vissuto di un po’ tutti i componenti della band, che secondo quanto affermato dal batterista Jeremy Gara, avrebbe voluto dar vita ad un concept album. Ricordi, immagini e sogni di bambino, alienazione, aspettative ed esperienze si mescolano dando vita ad un insieme idealmente omogeneo e acusticamente bizzarro: esperimenti, stili narrativi e musicali diversi. I synth hanno sostituito i vecchi cori e sono l’autentica novità  nell’universo sonoro della band. Butler stesso ha affermato che il disco sarebbe stato un blend di Neil Young e Depeche Mode, ma da Elton John a Springsteen non è stato risparmiato nessuno nel gioco delle citazioni.

“The Suburbs”, brano d’apertura, fa da cornice all’intero album con Butler che canta In the suburbs I / I long to drive / And you told me we’ll never survive / Grab your mothers keys we’re leaving tra chitarra acustica e piano, mentre “Rococo” liberamente ispirata dalla musica barocca, finisce con chitarre che ““secondo Règine Chassagne– suonano come i Nirvana. Il viaggio musicale di questi nuovi Arcade Fire ci porta dai Television (“Modern Man”) ai New Order (“Half Light II”) ai Depeche Mode (“Deep Blue”), a Neil Young (“We Used to Wait”) che -vista l’abbondanza dei rimandi nello stile vocale e melodico- evidentemente non era stato citato a caso dal frontman,. E’ vero che a tratti nella sperimentazione la band sembra perdersi, ma “We Used to Wait”, “City with No Children” e “Suburban War” ci lasciano pensare che ci ritroveremo ancora lì sotto al palco a cantare insieme a migliaia di altre persone. Si rimane di certo storditi dall’energico scossone punk di “Month of May” che si autorelega ai margini del disco, quasi priva di continuità  con gli altri brani.

Il vero colpo di scena però, bisogna sottolinearlo, è “Sprawl II”. Il pezzo senza ombra di dubbio catalizzerà  l’ira funesta dei dettrattori di “The Suburbs” o sarà  accolto da ovazioni. Senza mezza misure. Ci si aspetta un brano simile in un disco degli Arcade Fire come ci si può aspettare un brano hardcorepunk su un disco di Bon Iver. Indecisa tra gli Abba e Karin Dreijer non sapevo se cosiderarlo un colossale scivolone o un lampo di genio. Alla fine ha prevalso la seconda opzione anche se si fatica non poco ad accettare l’evidenza che proprio loro, i signori della nostà lgia nord americana, vivano una metamorfosi tanto sconcertante. Yes they can, gli Arcade Fire possono anche questo. Mentre siamo ancora increduli e in attesa di metabolizzare la novità , a chiudere il ciclo è un’eco rallentata ma in un certo senso anche liberatoria del pezzo iniziale: “The Suburbs (Continued)”. Un’ora e tre minuti, ottimo e abbondante.

Sospendendo giudizi di valore in attesa che gli Arcade Fire continuino il loro percorso credo sia preferibile pensare semplicemente che ““come altri grandi prima di loro- la band sia alle prese con la propria evoluzione musicale, il che implica qualche incertezza e una certa dose di indecisione sulla prossima identità  musicale. Si sono messi alla prova non come ingenui ragazzotti dal talento acerbo, ma come band dall’indiscussa compatezza, che può permettersi di scoprirsi spingendosi oltre l’immagine che aveva saputo dare della propria musica e del proprio mondo. Nonostante alcuni brani possano indurre alcuni a premere ‘skip’ alla velocità  della luce, il risultato è comunque qualitativamente buono; il gradimento, si vedrà .

Non pare un caso che la frenesia multiforme dell’album si chiuda con un If I could have it back / All the time that we wasted / I’d only waste it again/ Sometimes I can’t believe it, I’m moving past the feeling. Come a dire: ‘tutto fa’. E domani è un altro giorno, anche per gli Arcade Fire.

Photo: Guy Aroch