La verità  è che Kode9 un mix album come questo “Dj-Kicks” avrebbe potuto confezionarlo utilizzando solo tracce prodotte tra il 1996 e il 2000. O magari avrebbe potuto confezionarlo nel 2000, se non nel 1996. Anche senza macchina del tempo sarebbe venuto uguale. Lo stile è quello tipico di quei quattro gloriosi anni, e non si inventa più un bel nulla nulla ““ nemmeno in un mondo (abbastanza) dinamico come quello della musica elettronica.

Ciò che oggigiorno i critici musicali da cameretta chiamano dubstep altro non è che una riproposizione di ciò che andava per la maggiore in quei quattro gloriosi anni (IDM, breakbeat, 2 step, techno, downbeat, trip hop, per certi versi drum’n bass) rimasticato e sputato fuori più scintillante che mai grazie alle nuove tecnologie disponibili in sala di registrazione (o in rete, se i software utilizzati sono piratati) e alle nuove droghe disponibili sul mercato nero (o nelle farmacie, se si è provvisti di falsa ricetta medica da utilizzare per procurarsi psicofarmaci). Il dubstep non esiste, non ci piove.

Dicevo, l’evoluzione della tecnologia, l’evoluzione della farmacologia. L’evoluzione del gusto degli ascoltatori influenzata sia dall’una che dall’altra. Un mix album, un uomo solo al comando. Io che ascolto incredulo. Potrei anche fermarmi qui ma vado avanti dicendo che il Dj-Kicks di Kode9 è una delle cose più tamarre che io abbia potuto ascoltare da parecchio tempo a questa parte, e ciò è cosa buona e giusta. è vario ed eterogeneo, prende per mano l’ascoltatore e lo porta lungo un percorso che lo conduce ad una ipotetica meta fatta di consapevolezza nei mezzi di Kode9 e nel fatto che in ambito dubstep (continuo ad utilizzare quest’etichetta anche se non mi piace per nulla) il personaggio in questione è un innovatore, uno che quando c’è da rischiare, rischia. Eccome se rischia, visto che chiamato in causa dalla !K7 ha fatto la scelta meno ovvia possibile, ossia allontanarsi da quanto ci aveva fin qui fatto sentire (e più in generale da quanto si era sentito in passato sulla sua etichetta Hyperdub) per confezionare una compilation dal forte gusto retrò. Tutta roba che pare esser stata registrata tra il 1996 e il 2000, invece è musica (più o meno) nuova di zecca.

Ed allora ben vengano gli africanismi di “Pleaze Mugwanti” (Mujava), ben venga il pop tipo Destiny’s Child in oppio di “M.A.B.” (Morgan Zarate + Sarah Ann Webb), ben vengano i Portishead con un minor carico di paranoie e maggiori tendenze 2step di “Dirty Illusions” (Rozzi Daime). E ben venga tutto il resto, se serve ad allontanare chi è interessato solo alle mode di passaggio e non alla buona musica, ossia ciò che conta davvero.

Credit Foto: David Levene