Prendiamo in considerazione il fattore tempo. Ce ne vorrebbe tanto, circa una ventina di anni, per far sì che “Hurley” dei Weezer diventi quello che si propone di essere, un oggetto cult. Almeno un passaggio generazionale affinchè una serie come “Lost” venga digerita, dimenticata e rispolverata, quando Jack e co. avranno una patina vintage di cui ignoreremo volutamente intensità  e colore; già  immagino l’album nelle inquadrature di un film indipendente e citazionista di futura gestazione.

Ho il sospetto che i Weezer abbiano scelto la copertina di “Hurley” con il desiderio di piazzare una furbata, abbinando un’immagine geek a una scaletta di brani adolescenti e ammuffiti, più adatti a un serial televisivo targato Hbo anni Novanta che ad altro, qualcosa di allegramente demenziale che dovrebbe far sentire tutti più consolati ma che è l’esatto contrario del cult, per quanto il tuo vicino di casa disadattato voglia convincerti del contrario.

La brutalità  dei fischi che hanno accolto Hurley è pienamente giustificata. La domanda è: che diavolo stanno facendo? Una cover di “Viva la Vida” dei Coldplay che ha il pregio di dare dare un nuovo equivalente all’espressione ‘ecco qualcosa di inutile?’.
Non basta un’etichetta come la Epitaph a fornire le giuste credenziali e qui Cuomo riproduce una solfa che era già  vecchia dieci anni fa. Certo, non è che i fan stessero stracciandosi le vesti in attesa di nuovo album dopo il flop di Ratitude, ma il fatto che sia arrivato così in fretta lasciava ben sperare, come se qualcuno si fosse ricreduto sulla via di Damasco.

E invece no, Rivers Cuomo è ancora convinto di avere quindici anni e ben facevano le ragazzine a sbattergli le porte degli armadietti in faccia. “Hurley” è disperatamente fuori posto, la opening track “Memories” non fa che spingere un fan depresso a ricordare i fasti di “Pinkerton” e a cambiare idea sul loserismo: forse davvero è solo una cosa da sfigati, senza nessuna connotazione epica.

Volendo rubare una frecciata a un collega d’oltreoceano, “Hurley” dei Weezer è all’altezza del finale della serie a cui si ispira iconograficamente. A ciascuno le sue debite conclusioni. Anzi no, lo dirò io: fa pena.

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