Cosa fanno cinque ragazzi nati e cresciuti nel sud degli States e precisamente ad Athens nella Georgia, con la quadratura mentale rivolta agli anni 90 del grunge e che non vogliono assolutamente appropriarsi delle scorie e delle scolarizzazioni sonore dei REM loro concittadini? Semplice darsela a gambe levate da tutto quello che può costituire tara di rimando del Nirvana pensiero e nuotare alla larga dalle sabbie mobili della psichedelia southern ““ e non perchè assorbire tali moduli sia degenerante – solamente che così lo erano fino a pochi mesi fa e il momento di darci un taglio netto si era fatto urgente.

Secondo disco per i Dead Confederate, “Sugar” ovvero il salto dal vuoto alla luce, l’anello coniugante di un’ambientazione nuova cresciuta all’ombra di interminabili tour gavetta con i Dinosaur Jr. e Meat Puppet, ed è qui che una sorta di canovaccio idealistico ha preso vitalità  e forza nella rassicurante figurazione del classic rock e precisamente nell’imbastitura congegnante di unirlo a parentela stretta con l’indie alternativo.

Dunque, scongiurata l’epica decostruttiva della scena Seattleiana, la band mette le mani su architetture e marchingegni complessi e a velocità  massima, una musica estetizzante con pois spleen e ricami citazionisti che possono richiamare il noise sperimentale “Mob Scene”, i rumors melodiosi dei Dinosaur Jr. “In The Dark”, i Radiohead dello sconforto epocale “Sugar”, “By Design” e una massa di materia grezza che bascula e dialoga con i tempi d’oro degli immensi campi stempiati d’esperienze rock radicali e oscure.

Hardy Morris, la voce della formazione, da tono e sostanza che pervade l’innesto vitale ed espressivo dell’intero lotto e quello che si va ad incanalare nelle tubazioni uditive è un coraggio sporco e pieno di volontà  che si va realizzando man mano che le tracce avanzano a scolpire l’immaginazione; rimane in chiaro che si può fare di meglio e di più, ma la sintesi generale va a sconfinare nelle spine della materialità  compiuta, in quel tremendamente ‘proteso in avanti’ che fa sorpresa e certezza che la scena alternativa americana è andata oltre le deambulazioni del dopo grunge, delle sacche svuotate dopo la rapida botta di vita di Cobain.