Ho sempre riposto una gran fiducia nell’autunno, nonostante il debito di luce che porta con sè. Le prime pioggie, quando non sei ancora abituato al cambiamento, trascinano un maggior carico di fango, ma allo stesso tempo aumentano il piacere contemplativo delle varie tonalità  di grigio che schizzano in cielo. E con l’autunno inoltrato ho sempre sperato in un colpo di coda dell’anno musicale in corso, nell’ultimo regalo capace di squarciare ulteriormente i miei umori brumosi e porre le cose su un piedistallo prima di farle precipitare inesorabilmente.

Ascoltare un disco è come concedersi una piccola fuga, di quelle che non si specchiano nella codardia, ma che rigenerano come un sano ‘vaffanculo’ a tutto quello che non ci piace. Ancora una volta la mia fiducia è stata ripagata pienamente, da quando nelle casse del mio lettore girano i quattro accordi delle canzoni di Justin Townes Earle, figlio di quello Steve che, se non lo conoscete, è meglio che infiliate la vostra testa sotto un metro di sabbia.

Che volete che vi dica di “Harlem River Blues” che non sia stato già  detto per migliaia di dischi di folk americano? E’ esattamente quell’album senza tempo che tutti abbiamo ascoltato tante volte, classico fino al midollo e che non porta niente di nuovo nelle larghe maglie della musica contemporanea. Però si porta dietro piccolo grandi storie quotidiane, divertenti ballate da cantare attorno ad un fuoco e piccoli esempi di modernatiato folk dal sapore agrodolce e dalle tinte calde. A suo modo perfetto, con una scrittura solida quanto i monti Appalachi, immerso in quella sensazione che resta ai margini tra un groppo in gola di pura malinconia e la gioia di vivere.

Justin ha tirato fuori dal cilindro la perfetta colonna sonora di ogni foglia marrone che calpesteremo durante l’autunno. La fiducia nelle stagioni di passaggio è sempre ben ripagata.