Il sottoscritto è nato nel lontano 1983. Degli anni “’80 – e dello spirito musicale di quel decennio – ho quindi ricordi filtrati dagli occhi dell’infanzia. In particolare: pomeriggi passati in camera, centinaia di pezzi Lego sparsi sul tappeto azzurro, la radio sempre accesa. Perlopiù passava roba ignobile (Duran Duran, Umberto Tozzi, gli Abba, cose così) e spesso toccava alzarsi, abbandonando a metà  l’astronave in costruzione, per cambiare stazione in cerca di qualcosa di meglio. Tra le tante cose ascoltate in quei pomeriggi probabilmente ci saranno stati anche gli Orchestral Manouvres in the Dark (OMD per gli amici): gli anni a metà  degli 80’s sono stati quelli del loro successo commerciale.

Fondati nel 1978 dal duo Andy McCluskey e Paul Humphreys, gli OMD si sono fatti conoscere in fretta nel giro della nascente new wave, prendendo posto nell’ala più orientata verso sintetizzatori ed elettronica: i Kraftwerk come numi tutelari e una spiccata vena pop i loro ingredienti essenziali. Diventati presto un quartetto con l’ingresso in pianta stabile di Malcolm Holmes e Martin Cooper, hanno raggiunto veloci il successo di critica e di pubblico: il loro terzo disco “Architecture & Morality” (1981) è un gioiello synth-pop, mentre con “Junk Culture” (1984) arrivano anche le hit da classifica. Nell’88, però, qualcosa si rompe e tre dei quattro membri lasciano la band e vanno a formare i Listening Pool. L’unico superstite, Andy McCluskey, porta avanti il marchio in solitaria fino a metà  degli anni “’90, con anche buoni successi, ma non è più la stessa cosa. Bisogna aspettare il 2006 per vedere i quattro di nuovo insieme, e dopo una serie di tour molto ben accolti dal pubblico arriva anche l’annuncio di un nuovo album: il primo con la formazione originale dal lontano “The Pacific Age” (1986).

“History Of Modern” ha un problema fondamentale che va detto subito: è seriamente il successore di “The Pacific Age”, nel senso che sembra un disco uscito nell’87 o nell’88. Tolta ovviamente una produzione più pulita dovuta a vent’anni di miglioramenti nelle tecniche di registrazione. Solo due le eccezioni: l’iniziale “New Babies: New Toys”, un buon pezzo sinth-rock che ricorda da vicino i Metric, e l’ultima “The Right Side?”, che aggiorna la lezione degli anni “’80 all’elettronica più vicina al presente e non sarebbe affatto male se solo non si trascinasse per otto lunghi minuti. Tutto il resto evoca pericolosamente i ricordi di quello che passava la radio mentre giocavo con i Lego: dalla pomposità  da stadio di “If You Want It” fino a “Sister Marie Says”, cugina piccola di “Take On Me” degli A-ha, passando per il sinth-ballatone “Sometimes” e la disco svergognata di “Pulse”.

In quel decennio lontano che sono stati gli anni “’80 l’idea di modernità  era centrale, la fede in un futuro immaginifico pieno di bizzare (e pesanti) tecnologie era diffusa nelle menti di molti. E la musica fatta di tastiere ed elettronica seguiva quel futuro, in alcuni casi abbracciandolo ad occhi chiusi, in altri criticandolo apertamente. L’unico senso che riesco a vedere in questo “History Of Modern” è racchiuso allora proprio nel suo titolo: una testimonianza, un racconto del moderno, di quell’idea, ormai antica, di moderno. Qui non c’è traccia di revival anni “’80. Qui siamo negli anni “’80. Ma cosa succede se gli anni “’80 li abbiamo già  vissuti, li conosciamo bene e già  allora, spesso e volentieri, ci alzavamo per andare a cambiare stazione?