Non è semplicissimo ragionare intorno a “Dust Lane”, sesto album in studio del francese Yann Tiersen (senza contare le colonne sonore per “Amèlie”, “Good Bye Lenin!” e “Tabarly”). E’ materia densa e stratificata, carica di suoni e plateale nel suo mostrarsi senza mediazioni o trucchi da quattro soldi.

L’idea di mortalità , fare i conti con la fine, saperci convivere, è il tema centrale, e questo è un’inizio per capirci qualcosa. C’è uno schema che sembra sostenere le otto tracce in scaletta: si parte dal folk più classico, guidato da linee essenziali di chitarra acustica o mandolino, e si finisce presto nella trama fitta di un post-rock orchestrale a là  Thee Silver Mt. Zion. Un percorso in crescendo che ingloba, passaggio dopo passaggio, voci, archi, chitarre elettriche, vecchi sintetizzatori, fino a riempire ogni spazio disponibile. Fin troppo facile vederci riflessa la strada, comune a tutti, della perdita dell’innocenza. O forse no. Perchè – dopo qualche ascolto emerge con chiarezza – non è una questione di semplicità  di concetto, ma di sincerità  ed efficacia nella sua trasmissione. E’ quello che più colpisce nella musica di Yann Tiersen: complessa e diretta allo stesso tempo. E “Dust Lane” non fa eccezione, anzi rincara la dose alzando il tiro tanto nei temi trattati che nella ricchezza strumentale.

Matt Elliott, protagonista della scurissima “Chapter Nineteen” (e altrove ai cori), non poteva essere allora ospite più azzeccato. “Palestine” è l’altro momento cupo e disperato, mentre “Ashes” è epica e liberatoria come raggi di luce che entrano attraverso finestre dagli infissi scrostati. C’è la cavalcata folk-rumoristica di “Till The End” e ci sono gli inattesi inserti elettronici di “Dark Stuff”. L’iniziale “Amy” sembra scritta dai Broken Social Scene se solo fossero nati e cresciuti in Bretagna; l’unica concessione – seppur parziale – ad un pop accessibile spunta nella conclusiva, bellissima, “Fuck Me”, costruita su una melodia leggera e un crescendo finale dolce e sognante. “Dust Lane”, la titletrack, racchiude in piccolo tutto questo: il folk e il post-rock, gli strumenti acustici e i synth, il sole e certi dubbi disperati, il camminare decisi e la polvere sulla strada.

Non c’è un modo comodo per ascoltare questo disco. La sua sincerità  è qualcosa di intransigente, a cui non è semplice adattarsi. Riporta indietro, a come eravamo prima che le cose si complicassero e iniziassimo a sovrapporre ragionamenti, schemi, aspettative uno sopra l’altro. Sapevamo affrontare ogni questione, anche quelle difficili, con innocenza e una nostra, personale, coerenza. “Dust Lane” ci riporta – con la forza se necessario – in quella condizione: indifesi ma non ingenui, e capaci, lungo il cammino, di afferrare con un battito di ciglia ogni piccola novità  che compare nel paesaggio.

Credit Foto: Jeff Rabillon