La Tempesta, l’etichetta italiana più attenta alla musica che gira sullo Stivale, punta verso il Mondo e lo fa dando vita alla Tempesta International. Aprono le danze i bresciani Aucan, che con questo “Black Rainbow” (secondo album ‘lungo’) pubblicano un vero capolavoro: inutile girare attorno alle parole.

Vero compendio di quanto di meglio abbiamo ascoltato negli ultimi venti anni, dal trip-hop al rise and fall della scena rave, dall’industrial all’hard-techno fino alla recente totale esplosione dubstep. Dimenticati gli esordi caratterizzati dall’accusa di copiare i Battles, gli Aucan mostrano oggi una cifra stilistica policroma (tendente al nero) e assolutamente personale, che va oltre tutti i maestri che l’hanno influenzata e che potrebbero da soli riempire un’intera recensione. Ciò che conta è che “Black Rainbow” è un lavoro originalissimo e dannatamente coinvolgente, portatore di una quantità  di scelte e una qualità  di suono da lasciare a bocca aperta.

Scritto in totale solitudine dalla band nei boschi del Trentino, registrato in una quindicina di giorni a Padova e masterizzato a Londra dal guru Matt Colton (Depeche Mode, Aphex Twin, James Blake per dire), “Black Rainbow” resta un disco totalmente di Francesco D’Abbraccio, Dario Dasseno e Giovanni Ferliga, tanto è vero che quest’ultimo ha curato pure produzione e missaggio nonchè la stesura delle liriche. Se a questo uniamo il fatto che l’editing è appannaggio di Dassena e D’Abbraccio si è occupato dell’artwork del cd abbiamo chiaro come Aucan sia un vero monolite, portatore di uno dei dischi dell’anno, che dico del decennio prossimo venturo.

Brano di apertura è “Blurred”, che si avvale della voce suadente e delle liriche di Angela Kinczly, ci riporta alla Bristol dei primi ’90, quella che gli Aucan non hanno potuto vivere perchè troppo giovani eppure rievocano screziandola di Warp. “Heartless” è synth e batteria viscerale mentre la voce che si fa via via più pressante scandisce when everything is planned to be healing in a while, your core-heart is dead. “Red Minoga” scaraventa in pista unendo jungle e richiami Radiohead periodo “Kid-A”, suoni spaziali che si fondono alla successiva “Sound Pressure Level” dove ritmi e voci Beastie Boys invitano ad alzare il volume per godere meglio di tastiere e beat fiammeggianti. “Storm” rallenta un poco per poi riportare l’ascoltatore nello Stige di suoni rave e bombolette spray dilaniate non agitate, bordate di tastiere, sintetizzatori e voci che si accavallano nell’incubo perfetto di “Save Yourself”.

Ma non ci si salva da questo disco tra una “Underwater Music” nella quale sembra davvero di sentir cantare una sirena, la tensione selvaggia che monta “In a Land” e che trova il suo climax nel rap da sturm und drang di “Away!” In chiusura la title-track, arcobaleno malato dopo le tenebre, annuncia che c’è luce proprio laddove nessun uomo sta. Magnifica conclusione di un album magnifico ma forse preludio ad un cambiamento nella musica del Belpaese.