Proviamo a partire da quella che avrebbe dovuto essere la constatazione finale. Al di là  del fatto che la performance di questi sessantenni avrebbe molto da insegnare a band con 30 anni di età  media, Hammill & soci restano relegati al loro limbo temporale. Un limbo nel quale la forza creativa dei (pochi) vecchi pezzi proprio non può essere sostituita dai (tanti) nuovi pezzi. “Over The Hill” (da “Trisector” (2008), in questa serata molto saccheggiato), “Bunsho” e “Mr. Sands” (dall’ultimo “A Grounding In Numbers”) sono le eccezioni. Un’ora e mezza per un concerto che non ha manifestato alcuna ansia da performance e che è volato ben alto al di sopra delle aspettative dei nostalgici. Anzi il concerto ha voluto affermare, con un convincimento quasi ostinato, la comprimarietà  del nuovo materiale, in barba alle barbe bianche di molti dei fan presenti nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica, ossequiosi ma rumorosamente contrariati (quante volte ho sentito inneggiare richieste per “Still Life”, “Killer”, “La Rossa”) dalla scelta degli odierni VDGG.

Assolutamente caparbia resta la forza di affrontare il palco in modo robusto, veemente e con le consuete, consolidate capacità  individuali: in tal senso assume un valore quasi simbolico la voce di Peter Hammill che non cede un centesimo della sua intensità  e della sua forza espressiva: e dire che quest’uomo, osannato anche da schiere di rockettari post-punk (Johnny Lyndon in primis), si è sorprendentemente ripreso da serissimi problemi cardiaci. Guy Evans macinasassi alla batteria e Hugh Bunton alle sue tastiere echeggianti suoni presi a piè pari dai 70s (quindi decisamente fuori tempo) hanno giocato le loro parti con rabbiosa determinazione (certo Evans sarebbe degno di un premio speciale), senza il bisogno di rimpiangere troppo il sax di David Jackson. Solo nel finale i “vecchi” fan sono entrati di trepidante orgasmo: “Childlike faith in childhood’s end”, “Man-Erg” (che ha davvero meritato la standing ovation) e “Scorched Earth”.

Difficile immaginare come potrebbero arrivare a sessant’anni molti dei gruppi formatisi ad inizio anni ’90, valutando che già  oggi non versano nè in grande salute compositiva nè in grande spolvero dal vivo. Che l’esistenza dei VDGG nel presente non sia più così strettamente necessaria e che non abbia come fine un ulteriore cambiamento delle regole del gioco, è cosa abbastanza ovvia. Ma la questione della loro presenza non credo possa essere valutata nè in questi termini, nè in termini di un mero ritorno economico o di immagine. Pertanto prendiamo ciò che c’è come un’opportunità  per vedere, ancora potentemente viva, una di quelle poche formazioni che non si sono limitate a fare la Storia della Musica ma che, a tempo debito, hanno provveduto a scardinarla.

Credit Foto: ceedub13, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons