Come passa il tempo, a volte viaggia talmente veloce che vorrei fermarlo. O al limite tornare indietro, ma che senso avrebbe tornare indietro e rivivere esattamente le cose già  vissute in precedenza perchè si è felici così e non si vorrebbe cambiare nulla? Meglio guardare avanti, essere positivi e guardare al futuro anche quando si pensa al passato con una punta di malinconia. Meglio accontentarsi di tornare simbolicamente indietro grazie alla musica che per i rimpianti qua da noi non c’è posto.

Menate da androideparanoide a parte, ascoltando un disco del genere ti sembra davvero di tornare dritto alla prima metà  degli Anni Zero, quando i Notwist e i cLOUDDEAD sembravano (ed erano) le cose più fighe del mondo ed i Gorillaz erano circondati da una patina di hype talmente spessa e consistente da farli finire perfino nelle compilation del Festivalbar 2001 e 2005 (per la precisione: nel Disco 1 della Compilation Rossa 2001 con “Clint Eastwood” e nel Disco 1 della Compilation Rossa 2005 con “Feel Good Inc.”).
Però non c’è nessun dolore, nessun rimpianto (come cantava Max Pezzali quando era ancora one-man band negli 883): questa specie di supergruppo-collaborazione-unione tra Notwist e Themselves che risponde al nome di 13 & God guarda in maniera intelligente al futuro riflettendo sul passato e tira fuori una cosa che se ne sbatte altamente di innovare e suona esattamente come come la somma dei gruppi di partenza e di conseguenza un disco come “Own Your Ghost” sarebbe potuto uscire indifferentemente due, otto, cinque o sette anni fa ed avrebbe suonato esattamente così come è oggi che siamo già  nel 2011 e “Neon Golden” è uscito da nove anni e l’esordio dei cLOUDDEAD da quasi dieci anni (poco importa se i Themselves non sono i cLOUDDEAD interi ma solo una parte, il discorso fila lo stesso).

In fondo è giustissimo così, non chiedevamo altro: ascoltandolo capisci benissimo dove finisce l’uno ed inizia l’altro (Notwist e Themselves intendo, ma potrei anche benissimo riferirmi anche al limite tra ordinario e straordinario) eppure allo stesso tempo tutto riesce ad amalgamarsi in maniera meravigliosa e diventa un unicum che ti convince definitivamente che ci sono realtà  che nascono separate ma poi finiscono per diventare del tutto complementari e funzionali allo scopo (che in questo caso è la grande musica, ma che potrebbe essere anche qualche altro aspetto della vita che non sto qui a menzionare).

Un disco del genere non è per tutti. Non è per chi è alla ricerca dell’innovazione a tutti i costi e nemmeno per chi è alla ricerca dell’ultima sensazione buona per fare un album, finire in copertina su NME e poi cadere nel dimenticatoio l’anno seguente. Non è per chi spacca il capello in quattro pur di cercare un difetto in un disco (inventando difetti anche quando non ce ne sono pur di sparare a zero, dannata masturbazione mentale) e nemmeno per chi in rete è solito attaccare gli altri (in maniera virtuale, s’intende) sbandierando ascolti di gruppi e progetti più sconosciuti ed esclusivi di quelli altrui. Qui c’è tutto ciò che serve per essere felici: il croonerismo indie-pop di Markus Acher al servizio delle oscure trame elettroniche dei Themselves (“Armored Scars”, “Beat On Us”), le cantilene rap di Doseone che rendono il favore (“Death Major”, “Death Minor”) e rilanciano alzando la posta in gioco (“Sure As Debt”), le due realtà  che diventano un tutt’uno fino a sublimare in krautismi vari ed assortiti (“Janu Are”).

Magari tra un mese in rete o nelle riviste specializzate non si parlerà  d’altro e dovrò ricredermi, però ho l’impressione che “Own Your Ghost” sia un disco che non verrà  capito veramente da (quasi) nessuno e sarà  condannato a finire dall’hard disk al cestino di chi solo sei anni anni fa impazzì per il ben più debole debutto dei 13 & God. Purtroppo succede dato che oggi c’è troppa musica da ascoltare e poco tempo a disposizione, ma in fondo c’è di peggio nella vita ed io mi adeguo.