Il nome Katie Stelmanis non dirà  molto ai più. La ragazza, giovane canadese, già  fautrice di un disco a nome proprio nel 2008 realizzato mediante la finanziazione di un collettivo di artisti canadesi tra i quali collabora anche il ben più noto Owen Pallett, deve il suo fascino a una voce operistica, un vibrato di rara intensirà  che si manifesta con potenza sui testi arty scritti dalla stessa Stelmanis.

Austra è il progetto dark-synthpop dell’artista, in collaborazione con i musicisti Maya Postepski e Dorian Wolf. La popolarità  del gruppo, coltivata nei blog più hipster del pianeta, è dovuta principalmente al primo singolo proposto al termine del 2010, “Beat And The Pulse”. La canzone effettivamente è una bomba, non le manca niente: ritmo sintetico incalzante, pad che scandiscono selvaggiamente un ritmo lugubre e inquietante; la voce della Stelmanis passa con minacciosa calma dal mantra delle strofe ai vocalizzi urlati del ritornello. La buonanima di Nico che canta su una base di Fever Ray. Il pezzo è arricchito da un video ad hoc, tra i più belli della scena indipendente usciti quest’anno, tra languide signorine danzanti e mutazioni genetiche. Il secondo singolo, video escluso (n’accroccone pseudo-concettuale à  la M.I.A, ambientazioni domestiche e nonsense grafico) segue i buoni spunti del precedente regalando un carosello barocco su fini rotaie electropop. Dunque le premesse per ascoltare questo disco ci sono tutte. E proprio qui inizia il dramma.

Se nella prima parte del disco ““ che, guarda un po’, contiene anche i singoli estratti ““ tutto fila liscio, tra le simili ma comunque godibili cavalcate synth-goth “Darken Her Horse” e “Spellwork”, già  dall’insipida “The Choke” qualcosa comincia ad andart storto. Medesima sensazione in “Hate Crime”, che se non fosse per un marcato sentimento per le sbrilluccicose tastiere 80s ricorderebbe quasi alcune delle armonie del già  citato Pallett, mentre “The Villain” ha il pregio di far sentire più che in ogni altro brano il vibrato della cantante (posso assicurare per esperienza diretta che dal vivo emerge anche più che sul disco, dove è quasi soffocato dai pesanti sintetizzatori). “The Noise” poco aggiunge a quanto detto, salvo un paio di schitarrate effettate, mentre la conclusiva “The Beast”, per piano e voce, si addentra in territori totalmente diversi senza accusarne il colpo.

“Feel It Breaks” è un buon disco, sia chiaro. Senza dubbio la formula non è nuova, Klaus Nomi cantava in quella maniera sulle basi synth già  trent’anni fa, ma l’originalità  non è necessariamente sinonimo di qualità . Il problema sta nelle aspettative create con singoli di tale portata, decisamente troppo belli per essere accompagnati da brani gustosi ma di minor spessore.