Grande annata per i ritorni al femminile il 2011 ““ anche se a ben vedere il personaggio in questione non ha poi molto del gentil sesso, sia vocalmente che per quanto concerne il campo estetico. Se non altro non corre il rischio di distrarre il pubblico dall’ascolto della sua musica.

Che poi diciamocelo, Merrill Garbus è uno di quei personaggi che non ha proprio bisogno di un corpo mozzafiato o di un viso angelico. Se ne sbatte altamente, dimenando i suoi mustacchi al ritmo ipnotico di “W H O K I L L”, seconda opera solista su 4AD dallo scioglimento dei Sister Suvi. Il disco è anticipato dal primo singolo “Bizness”, pezzone freak-pop capace di innalzare il progetto tUnE-yArDs da misconosciuta entità  underground a realtà  popolar-hipster, anche grazie al merito di un videoclip coloratissimo e di forte impatto visivo, a richiamare lo spirito tribale che pervade l’intero lavoro. Immediata l’indie-ribalta, tra grandi palchi dei festival musicali estivi, interviste e promozioni su siti e sitarelli vari e perfino una prima esibizione live in tv da Jimmy Fallon insieme ai The Roots ““ e se non l’avete ancora vista correte a cercarvela subito su youtube, che vi perdete tanta roba.
Un’ascesa repentina dunque quella di Merrill, anche grazie alla complicità  di Pitchfork che con costanza da mesi la spiattella in home page innalzandola a salvatrice della musica contemporanea. Un giudizio enfatico che a distanza di mesi dal lancio del disco si sta tuttavia rivelando sensato: “W H O K I L L” è il tipico album che si fa apprezzare al primo approccio, magari non nella sua totalità , magari altalenando grandi momenti musicali a brani di minore impatto, per crescere nei mesi a venire e confermarsi definitivamente come uno dei dischi che rimarrà  di questo 2011.

Sin dal lancio di “My Country” si insinua l’atmosfera che si respirerà  nei successivi tre quarti d’ora di musica: tribalismi random e sfuriate synth accompagnano i saliscendi vocali di Merrill, novella reginetta del campionatore a pedali. Una voce nera, a dispetto della parvenza teutonica dell’artista, duetta con sassofoni impazziti e giocattolosi xilofoni. Il disco non è manco cominciato che già  abbiamo un gioiellino sotto mano.
“Es-So” è un mid-tempo un po’ parlato un po’ no con coda psycho-lo fi incorporata, mentre il potenziale singolo “Gangsta” riprende gli intenti del brano d’apertura in quattro minuti di gioia e follia fricchettona. Il Pezzo che le CocoRosie tentano di fare dai tempi di “Noah’s Ark”, senza riuscirci. “Powa” sfodera schitarrate old-school, mentre “Riotriot” scivola magnificamente dal binomio arpa-percussioni in una parentesi noise-pop per sfociare nell’etno-rock di Vampire Weekend et similia. Il dovuto passaggio per la già  citata “Bizness” ci introduce alla seconda parte del lavoro, dove “Doorstep”, forse l’unico pezzo omogeneo in tutta la sua durata, prosegue placido senza contorcimenti. Indie rock di surfeggiante memoria in “You Yes You” e un’inedita dimensione intima e acustica in “Wolly Wolly Gong”, fino alla conclusiva “Killa”, che sembra uscita da “Bitte Orca” dei Dirty Projectors.