Si può invecchiare magnificamente, almeno in musica. E’ il caso della band di Athens che, pur non regalando dischi memorabili nel lotto dell’ultima produzione, si congeda più che dignitosamente dalle scene. E’ anche una questione di giusta tempistica e di dignità . Forse l’unico scivolone è quell'”Around The Sun”, disco decisamente mediocre che comunque annovera almeno un paio di ottimi passaggi. Del quintetto finale, “Up”, il primo disco post Bill Berry, è forse l’ultimo in cui il percorso dei Nostri si compie definitivamente, sperimentando un pop raffinato, variegato e moderno. Sarebbe stato un congedo con i fiocchi, lo sarebbe stato anche il malinconico “Reveal” di qualche anno dopo, album che sembra vivere in un perenne e livido tramonto di fine estate.

Lo scivolone di cui prima ci aveva preparati al peggio; fortunatamente ci ha pensato la doppietta finale “Accelerate” e “Collapse Into Now” a rimettere lo cose a posto, rappresentado una summa di tutto ciò che è stato il suono dei R.E.M. Più a fuoco il primo, pieno di irruenza rock, come a volersi riappropriare di qualcosa che sembrava sfuggita di mano, leggermente più stanco il secondo, capace comunque di regalare qualche colpo di coda degno di nota. Un bel disco e un addio elegante, lontano dai grandi proclami e dalle luci dei riflettori. Ora solo un grande vuoto dentro. Difficile trovare una band che per più di tre decenni non sia mai (o quasi) inciampata nel clichè di se stessa. Onore a Stipe e soci, ci mancheranno.
(Enrico “Sachiel” Amendola )

UP

Warner – 1998

Dopo l’uscita dal gruppo del batterista Bill Berry, i R.E.M. reagiscono con il loro album forse più sperimentale (siamo nell’anno di “Ok Computer” dei Radiohead) ed elettronico, che nonostante la sofisticatezza e la conseguente non immediatezza all’ascolto ha riscosso un unanime successo di pubblico e di critica.

La band di Athens aggiunge al proprio repertorio l’uso di mellotron, keyboards e sezioni d’archi sintetizzate come in “You are in the air”, inserisce campionature ritmiche al limite dell’ipnotico e aumenta la distorsione delle chitarre raggiungendo un livello di ricercatezza ed elaborazione decisamente elegante e raffinato. La costante ricerca di atmosfere rarefatte e il taglio minimal delle sonorità  fanno il paio con una versatilità  di registri che spaziano dal riff stridente di “Lotus”, la prima manifestazione glam di Stipe, alle più classiche ballate “At My Most Beautiful” e “Walk Unafraid”, passando per il testo haiku di “Daysleeper” e la trance di “Airportman”. Un disco maturo, un cambio di pelle dei R.E.M. che nonostante questa prova di trasformismo non abbandonano la propria identità .
(Marco Guerne)

REVEAL

Warner – 2001

Un lungo tramonto di fine estate, ecco cos’è “Reveal”. Atmosfere pigre, livide, un po’ stanche. Il primo disco in cui i R.E.M. mostrano qualche crepa dovuta all’età ; destinato a non piacere a tutti, rappresenta comunque un lavoro di indubbia classe. Eleganza che sfiora il mestiere per un album che, con una produzione appena un po’ meno laccata, avrebbe assecondato qualche palato ancor più esigente.

Una manciata di ottime canzoni, una tracklist di grande coerenza che non ama prendersi in giro, ben consapevole che il meglio è lasciato ormai alle spalle. Dieci anni dopo questo disco suona ancora bene, cosa che non riuscirà  al suo successore. Se tutte le giornate di fine estate fossero così, il mondo sarebbe un posto migliore in cui vivere.
(Enrico “Sachiel” Amendola )

AROUND THE SUN

Warner – 2004

Probabilmente l’album più sottovalutato della band di Athens. Stroncato dai critici, mal digerito dal pubblico, parzialmente disconosciuto dallo stesso Peter Buck che, insoddisfatto del suono ottenuto, ha dichiarato in più di un’occasione che non entrerebbe certo nella sua personale classifica di bei ricordi. La pecora nera della famiglia, insomma.

Erano lontani, distanti questi R.E.M: ognuno confortevolmente a casa nella sua parte d’America, con le scorie dell’abbandono di Bill Berry e lo shock post undici settembre (come non sentirlo, nella struggente “Leaving New York”) ancora nelle vene. Ormai considerati da molti un trio dalla fredda e spietata professionalità , musicisti arrivati, finiti. Ma è tutta apparenza. Andando a scavare, oltre la superficie, sotto i lustrini e il trucco di Michael Stipe, dentro quel colore blu cobalto cosparso un po’ ovunque, qualcosa resta.

La feroce indignazione di “Final Straw”, l’energia di “Wanderlust”, i giochi di parole di “The Outsiders”e la leggerezza di “Aftermath”. La malinconia di dolci ballate come “Make It All Ok” e “The Ascent Of Man”. Pensandoci bene, è più che abbastanza
(Valentina Natale)

ACCELERATE

Warner – 2008

Io sono di quelli che temono i gruppi longevi. Ad esempio ho una paura fottuta dei Rolling Stones, se penso ai Pooh la notte non dormo. Per questo motivo ho accolto la notizia dello scioglimento degli R.E.M. con un sospiro di sollievo. Ho sorbito le lacrime dei ginicastaldi (figura retorica) come si fa col thè delle cinque, in attesa che scendano in campo i “piezzanovanta” dei mensili musicali per fare un grande banchetto in salsa patinata. Ho passato la mia adolescenza ascoltando il gruppo di Michael Stipe e i ricordi di quei momenti sono meravigliosi e indelebili eppure si stava facendo concreto il rischio che tanto amore andasse in aceto, cosa che succede quando si invecchia male.

Ho amato ogni loro disco, con punte di follia e delirium tremens per quel suicidio commerciale che fu “New Adventures in Hi-Fi”, fino ad “Up”. Poi basta. Ho scelto di parlare di “Accelerate” perchè collegato ad un “simpatico” qui pro quo, infatti al primo ascolto mi dissi: “ma pensa, una bella raccolta di B-sides”. Invece no, quei pezzi che credevo di aver già  sentito, provenienti dai primi Novanta, erano in realtà  nuovi e rispondenti alla volontà  della band di “tornare al rock”. Volontà  molto ben espressa prima di mettersi al lavoro e ribadita nelle interviste promozionali, una volta uscito il disco. Io che non leggo mai le interviste promozionali, seppi solo dopo e mi arrabbiai per cotanta programmazione.

Ora sono qui, in un Autogrill, davanti ad una copia di “Accelerate” buttata nel cesto delle offerte a cinque euro mentre appunto i miei pensieri su un tovagliolo unticcio. Penso che da bambino era bellissimo fermarsi all’autogrill (non ancora brand), con i suoi panini buonissimi e sempre caldi. Oggi i panini hanno pressappoco gli stessi nomi e sono pur sempre caldi ma fatti in poliestere. Gli R.E.M. sono l’autogrill dell’anima mia. Attendo con ansia che la “grande A” prenda la stessa decisione di Stipe, Mills e Buck. Sigla.
(Gianluca Ciucci)

COLLAPSE INTO NOW

Warner – 2011

I segnali c’erano tutti (mancato rinnovamento del contratto con l’etichetta, niente tour) ma io gli ho ignorati. Pensavo che i Rem volessero semplicemente rifare qualcosa che era riuscito loro benissimo- “Automatic for the people”- piuttosto che convertirsi a cose falsamente nuove come il dubstep (una volta chi era alla frutta si lanciava a capofitto nella world music, i tempi cambiano) o fingere un’aggressività  che il loro status anagrafico avrebbe umiliato. “Collapse into now” era tutto quello che potevo aspettarmi dai Rem a questo punto delle cose: e se “UBerlin” è stata trasmessa da troppe radio e in troppi contesti sbagliati, “Oh my heart” ha dimostrato che in fondo la band era ancora intatta.

Se il cameo di un altro alfiere della stanchezza come Eddie Vedder in “It happened today” ispirava considerazioni da eutanasia (dovremmo finirla, dovremmo finirla sul serio) “Alligator” e “Peaches” dicevano che c’era ancora spazio per un certo divertimento da festa del quattro luglio. Da un paio di giorni ho smesso di chiedermi come i Rem avrebbero occupato gli anni a venire, che tanto lo sappiamo tutti: avrebbero continuato a scrivere canzoni decenti, qualche capolavoro ogni tanto e a compilare centinaia di schede di revisione, molte delle quali appena passabili. So che è molto elegante dire che non ne sarebbe valsa la pena, ma di orazioni funebri eleganti non ne ho mai sentite, se non in qualche pacchiano.

L’unica consolazione è pensare che in qualche modo la band ha chiuso la carriera ritornando al punto in cui tutto era iniziato: a quella Patti Smith, in “Blue”, senza la quale Michael Stipe non avrebbe scritto certe canzoni nel modo in cui ha fatto. Voglio che Whitman sia fiero di me, che Patti Lee sia fiera di me, e che i miei fratelli siano fieri di me. Difficile dire che non ci sia riuscito.
(Claudia Durastanti)