Chelsea Wolfe, ragazza californiana dal fascino enigmatico, potrebbe essere considerata un po’ la punta di diamante (anche in pochi lo riconosceranno) di tutto un non-movimento gotico-hipsteroide (del quale spesso le artiste sono protagoniste) che negli ultimi pare abbia avuto e stia avendo un certo successo nel circuito discografico indie. Si pensi a Zola Jesus, gli Austra, le Effi Briest, o anche le Warpaint, Fever Ray, Soap & Skin, Bat For Lashes (in parte accostabili, ognuno a modo proprio, a questo tipo di sonorità  notturne), a etichette come la Sacred Bones e la Captured Tracks o al fenomeno della Witch House. Tuttavia Chelsea non è e purtroppo non pensiamo sarà  destinata al riconoscimento di una platea troppo vasta. Troppo profonda e complessa rispetto ai trend imperanti anche in ambito “alternativo” (anche se in parte in linea con l’estetica dell’etichetta Pendu), ancora più tenebrosa e al contempo meno banalmente oscura di tanti artisti dark, lontana da mode o goticismi d’accatto, la Wolfe, pur con tutti questi pregi e capace di forgiare un sound dall’identità  ben chiara ma anche piacevolmente eterogeneo, rimarrà  se non per sempre almeno per lungo tempo un’artista di culto per ristretti pubblici composti da musicofili insoddisfatti.

“Apokalypsis” (greco per “Rivelazione”) è il secondo splendido album dell’artista americana, dopo l’affascinante e più lo-fi “The Grime And The Glow” dell’anno scorso (ma in realtà  era già  uscito sempre nel 2010 su Bandcamp in formato digitale). La sfida (forse inconsapevole) della Wolfe al mondo musicale sotterraneo non avviene solo dal punto di vista prettamente estetico e stilistico, ma anche dal punto di vista dei contenuti. Gli occhi vuoti della Wolfe penetrano con tagliente acume, etereo ardore e sprazzi di onirica inquietudine lynchiana atmosfere incredibilmente dense e acquitrinose, in una sintesi mirabile di umori umbratili e derelitte e deliranti visioni postatomiche, che non rappresentano solo un mero pretesto per suonare ma hanno l’effetto di una coltellata alla mente e nel cuore, di dopo-punk crudo, nero folk dreamy e doom.

Tra Rivelazioni oscure e sentori d’Apocalisse la Wolfe ci consegna poi un brano come “The Wasteland” davvero uno dei simboli più potenti in musica dello spirito che anima questi tempi, nei quali la speranza è un miraggio sempre più sfocato. Tra sfranti rumori industriali e percussioni ovattate, si levano quiete brume d’organo mentre la spettrale vestale Wolfe declama versi riverberati direi tristissimi ma che in fondo indicano la più semplice e dolce delle vie per dare un senso all’esistenza: it’s gonna be a wasteland, it’s gonna be a dark and narrow road”…if you could hear what i hear/
the whole world moving at the same time”… keeping time with the clicking of your tongue against your teeth/ spelling words you used to know to mean such things/like L-O-V-E
.

Ma la ragazza come detto si presenta sotto varie forme. Abbiamo così un pugno di tracce formidabili tutte degne di nota, alcune più ritmate come “Mer”, una sorta di “There There” radioheaddiana più diabolica, la deliziosa “Friederichshain”, sorta di cupa breve fiaba caratterizzata da gustosi cambi ritmici e “Demons”, pezzo grezzo e urticante che forse sarebbe piaciuto ai primi Sonic Youth, già  presente in un’altra versione nel precedente “The Grime And The Glow” così come “Moses”, un bel numero dream-folk-pop avvolto in una raggelante coltre doom (nell’altro disco si presentava in una veste meno sognante). La struggente “Tracks (Tall Bodies)”, la ““toh!- cinematica “Movie Screen” (roba da far invidia ai Portishead di “3”) e la più prettamente doom “Pale On Pale”, ossia il momento più gelidamente terrificante del disco (brani stavolta più lenti e atmosferici) arricchiscono ulteriormente una tracklist emotivamente davvero intensa. La Wolfe non deve temere neanche l’accostamento più volte fatto con la ovviamente ben più acclamata Pj Harvey, che nonostante il recente, bellissimo “Let England Shake” alla fine dei conti (considerandone ovviamente non tutta la carriera ma solo l’anno in corso) non può che perdere il confronto con la giovane statunitense.

Photo: Ben Chisholm