Se non il più letto, sicuramente “Retromania” (Isbn Edizioni, 2011, traduzione di Michele Piumini) è stato il saggio più citato del 2011, e non sempre con cognizione di causa.

Muovendo da una constatazione tutto sommato semplice, prima o poi il passato che abbiamo a disposizione finirà , Simon Reynolds sviscera i nodi e i tormenti di una decade musicale che non è riuscita a produrre il suo paradigma. Sembra che la complessità  dei riferimenti e delle citazioni presenti nell’indie e nell’alt-rock contemporaneo- e qui parliamo non di formazioni sterilmente imitative ma di band come Vampire Weekend e Girls– annoi Reynolds più di quanto lo affascini, e questo l’autore ce lo fa capire in tutto il libro.

E’ tuttavia un peccato che Simon Reynolds sia riuscito a imporsi negli ambienti più estranei alla critica musicale con un testo a tratti strutturalmente- e consapevolmente- debole. Sembra quasi che l’autore si sia messo in competizione con l’epoca che ha cercato storicizzare: paradossalmente, l’unica cosa che dovremmo ricordare dei Noughties è proprio “Retromania”. A mio avviso, è altrettanto paradossale che un saggio che tratta di nostalgia sia così spietatamente poco romantico. Detto questo, Retromania resta una lettura imprescindibile e affascinante, che apre la strada a una nuova direzione nella carriera di Reynolds: ci sono tutte le ragioni per ipotizzare che il suo prossimo testo tratterà  pochissimo di musica, o forse non lo farà  affatto.

A mesi di distanza dalla pubblicazione di “Retromania”, non hai la sensazione che il libro chiuda una crisi piuttosto che spalancarne una? Ormai tutti sembrano intimamente consapevoli di cosa ci sia in ballo; fa un po’ parte del senso comune dire che la cultura pop sta implodendo. Forse la noia e la mutua consapevolezza delle circostanze sono una via di uscita dal retro. Lo stesso discorso si applica al trionfo e declino dell’hipster: non hai la sensazione che, diventato ormai bersaglio di commedie mainstream o di prodotti televisivi di basso livello, il suo valore sia praticamente azzerato?
E’ innegabile che “Retromania” articoli una serie di processi di cui molte persone sono già  consapevoli; nel libro cerco di tirare le somme del discorso in una visione globale del presente, cercando di storicizzare la cultura pop e rendere conto di come siamo arrivati a questo punto. Non so se l’hipster sia già  sparito dalla scena. L’hipsterismo è la nostra versione contemporanea di boheme, ma senza la percezione di sè come progetto che invece la boheme aveva. E’ una boheme non spirituale e quasi sempre disillusa, che ancora si aggrappa all’idea della diversità  o dell’esprimere una forma di identicità  marginale attraverso scelte di stile e di mercato, selezionando determinati prodotti piuttosto che altri, ma che non sa più perchè lo sta facendo o perchè questo dovrebbe essere importante.

Si tratta di gusto e creatività  come espressioni di una devianza che non viene quasi mai politicizzata, di uno stile non convenzionale determinato dalla sua stessa autoironia e dal suo stesso senso di futilità . La struttura- in termini di società , classe e contraddizioni del capitalismo- che ha reso possibile la prima boheme e poi l’hipsterismo, non è cambiata, ed è per questo che qualcosa di analogo continuerà  a esistere e a riprodursi. E’ probabile che questa fase di hispterismo o come vogliamo chiamarlo stia volgendo al termine, se le sue caratteristiche sono talmente identificabili dall’essere triturate nel mainstream. Ma qualche nuova modello di pseudo-ribellione auto contraddittoria e di compromesso prenderà  corpo nello stesso spazio vuoto lasciato dagli hipster.

Perchè questa figura ci fa precipitare tutti in una crisi isterica, a differenza di quanto accadeva con i punk o i raver?
Perchè ci è molto vicina. Fino a poco tempo fa, se usavi la parola hipster nel 99 percento dei casi lo facevi per definire qualcuno come te. Io stesso rientrerei nella categoria, se solo non fossi così vecchio e privo di attenzione per la moda in termini di vestiti e trend. Ma dal punto di vista della musica rientro perfettamente in quella categoria.

La parola hipster ha subito la stessa evoluzione di ‘politically correct’, un’espressione inizialmente adottata dalla sinistra per descrivere persone del loro stesso ambiente sociale considerate troppo rigide e ideologicamente dogmatiche (in pratica uno split interno, ndr).

Dato che ormai l’intero scibile musicale, dall’estrema avanguardia al mainstream pop più banale, è diventato potenziale fonte di citazione ed è stato adeguatamente esplorato, l’unico futuro possibile in musica forse potrebbe coinvolgere gli altri sensi, in una sorta di 3D sonoro. Il nuovo Kurt Cobain non prende forse ispirazione sia dalle sei corde che da Steve Jobs?
E’ probabile. Qualcuno mi ha parlato di nuovo materiale audiovisivo che Amon Tobin ha realizzato per ISAM definendolo senza precedenti. Ho ascoltato solo la parte musicale del progetto ma in teoria è un’esperienza audio/visiva su larga scala, in collaborazione con Blasthaus, VSquared Labs, Vita Motus Design, Leviathan.

Wolfgang Voigt ha fatto qualcosa di simile quando è andato in tour per Gas in partnership con il video artista Petra Hollenbach; il risultato è stato grandioso ma c’era un che di statico nel tutto, te ne stavi semplicemente in poltrona ad seguire lo spettacolo. Forse nel futuro assisteremo a una sincronizzazione tra musica e arti visive in un una dimensione improvvisata e diretta, che reagisce in base alle persone.

Qualche considerazione personale su Steve Jobs? Se la merita davvero l’etichetta di genio che ha modellato e trasformato la cultura pop nell’ultima decade?
Quando Jobs è morto molte persone che mi erano attorno sono precipitate in uno stato di profondo cordoglio. Allo stesso tempo, mi ha stupito constatare quanto Jobs avesse influito poco sulla mia vita direttamente. Non ho un Mac, solo un Dell, della Apple possiedo un piccolo IPod che non uso quasi mai. Non sono mai stato un fan del Walkman all’epoca (trascorro tutto il giorno a casa ad ascoltare musica, quando esco mi piace immergermi nei suoni della città ). Ma indirettamente, Jobs ha avuto un enorme impatto sul modo in cui vivo, dato che iPod e iTunes e in generale la digitalizzazione della musica, gli MP3 e il filesharing hanno stravolto il modo in cui la gente la ascolta.

Lo shuffle, in particolare, racchiude bene il senso ci si approccia oggi al suono, andando alla deriva tra generi, storia e appassionandosi a tante cose senza essere ossessionati o fanatici di un specifico genere. Quindi direi che se i Noughties hanno assistito a uno stravolgimento nelle pratiche di ascolto ma a nessuno rivoluzione musicale in sè (le due cose sono intimamente collegate) questo è dovuto soprattutto a Jobs e alla Apple. Lo stesso dinamismo e i rapidi cambi che un tempo ci venivano dati dalla musica in termini di stili e correnti adesso riguardano quasi solo le piattaforme e gli strumenti con cui la ascoltiamo. L’eccitazione ansia da futuro proviene soprattutto da lì, da questi piccoli marchingegni che facilitano lo sharing, l’archiviazione, l’organizzazione della libreria a velocità  forsennata, nel brivido eccitante di una convenienza senza ostacoli.

“Retromania” interpreta il ritorno al vecchio come una svolta negativa del presente. Non ti capita mai di pensare che nello scontro tra vecchi linguaggi e nuovi trend (che esistono, questo non può essere negato, malgrado siano sepolti sotto strati di altre cose e malgrado forse non pretendano affatto di essere innovativi) possa insinuarsi una forma minima di progresso?
C’è un capitolo in “Retromania” in cui analizzo la bizzarra genesi del punk, che è stato una rivoluzione quasi accidentale. All’inizio le persone coinvolte nella scena o che hanno posto le basi per le sue fondamenta buttavano tutte un occhio verso il passato: nelle loro intenzioni, si trattava solo di ripristinare le cose come erano una volta, che fosse il rock’n’roll degli anni cinquanta o il Mod dei sessanta.

E’ curioso come queste persone si siano messe in marcia verso la rivoluzione senza neanche esserne consapevoli. Non a caso molte di loro rimasero stupite da cosa sarebbe diventato il punk dopo: la moda trasgressiva, la politica, l’ambiente artistico, il femminismo, il situazionismo e l’effetto shock. Una cosa molto diversa dal rock’n’roll di stampo teenageriale a cui avevano puntato agli inizi; i punk hanno ottenuto in cambio molto di più di quello che avevano scommesso. Con quel capitolo cerco di capire se sia mai possibile che un movimento orientato verso il retro riesca a diventare progressista. Il problema è che è impossibile preconizzare se questo accadrà  o se il movimento in questione imploderà  in un revival nostalgico vuoto e senza direzione. La rielaborazione del passato può sicuramente produrre innovazione ma richiede una forma mentis orientata verso l’iconoclastia e il non rispetto, una forma di violenza o di “danno trasformativo”.

Un buon esempio è dato dai Wire, che per una delle loro canzoni decisero di mettersi alla prova e scoprire se potevano riscrivere “Johnny B. Good” con una corda sola. Non ricordo di quale canzone si trattasse- “12 XU forse” ma il risultato non somigliava per niente a Chuck Berry e nessuno avrebbe mai potuto indovinare quale metodo avessero seguito per comporre la canzone. Un esempio più recente è dato dall’album “Glass Swords” di Rustie, che trae molta ispirazione dal prog rock, da gente come Allan Holdsworth, che suonava nei Soft Machine, Gong e U.K prima di dedicarsi a una carriera solista. Qui l’aspetto trasformativo è la traslazione di idee fondamentalmente rock (lunghi assoli serpeggianti di chitarra, magniloquenza, il senso della scala e delle altezze) in musica dance ed elettronica. L’intenzione prog si intuisce chiaramente nel risultato e viene tirata in ballo in modo giocoso dall’artwork del disco e dal logo, che ricalcano quello dei dischi di Roger Dean negli anni Settanta. Il prodotto finale non è rock nè dance ma qualcosa di fresco ed eccitante: spirito vecchio, carne nuova.

Lo stesso Allan Holdsworht ha affermato qualcosa di interessante a proposito di questo processo; quando gli hanno chiesto quali fossero le sue influenze e ha dichiarato di amare compositori classici come Ravel Debussy, Stravinsky, Copland e Bartok. Quello che ho preso da quei ragazzi riguarda soprattutto l’emotività , non la struttura dei brani. Riguarda il modo in cui mi hanno fatto sentire. Questo perchè io voglio esserne influenzato, il che è molto diverso da mettermi a rifare il lavoro di qualcun altro per filo e per segno.
Holdsworth fa una chiara distinzione tra influenza/ispirazione contro imitazione/pastiche. Il problema della musica contemporanea è che spesso si mette dal lato sbagliato della questione: retromania significa imitare per filo e per segno lo stile di un’epoca, con ossessione per il dettaglio. E’ lo stesso divario che separa l’arte dall’artigianato: l’artigianato riguarda gli aspetti tecnici di una riproduzione, la correttezza filologica, il rispetto di forma e lingua. L’arte invece riguarda la creazione di nuove forme e di nuovi linguaggi. E’ ovvio che ognuno subisca delle influenze, ma è cruciale che queste ci portino altrove.

Allora non c’è davvero niente di nuovo, i vecchi modelli codificati sono l’unica consolazione? Prefiguri qualche cambiamento all’orizzonte, dove stai volgendo il tuo sguardo?
Ho ascoltato un paio di cose recentemente che mi sembrano fresche e innovative, come il disco di Rustie o l’ultimo di Oneohtrix Point Never. C’è un certo grado di giocosità  e sperimentazione in entrambi gli album che riguarda il passato, con idee arcaiche relative al futuro, al denaro. Nel corso dei Noughties mi sono imbattuto in cose del genere (i due album precedenti di Oneothrix Point Never sono pieni di momenti spiazzanti), ma si tratta di un artista isolato o di una singola traccia. Quello che non ho visto, e che tutt’ora non vedo all’orizzonte, è innovazione sistematica sul piano del genere, che coinvolga più di un paio di professionisti E da un po’ che consto l’assenza di un complesso di idee musicali in grado di essere esplorate da una comunità  di artisti e di reggere ed evolversi in un arco temporale lungo. La novità , quando appare nei Noughties, sembra essere sporadica e isolata in episodi. Non c’è niente che sia nell’ordine della prima techno o house. O dell’evoluzione della hardcore e rave in Inghilterra nei primi anni Novanta, con il passaggio dall’hardcore al jungle fino al garage e grime, dove c’è un intero movimento, una scena macro che subisce stravolgimenti interni e vive varie fasi, con una quantità  impressionante di musica che viene messa in circolazione, tra centinaia di produttori e artisti che condividono le proprie idee. Niente nell’ordine dell’hip hop nel suo momento d’oro (che è durato circa venticinque anni!), il reggae nei Settanta, o la disco, o il post-punk.

La cosa più simile a questi processi, di recente, proviene dalla dubstep che ha prodotto un numero significativo di variabili mantenendo dei legami con il passato, con le tradizioni reggae o dub. Ma a volerla dire tutta la dubstep non è che un’estensione degli anni novanta, che si infila nel solco aperto da rave e jungle. Ma è fuori di dubbio il che sia il settore da cui in anni recenti sono regolarmente venute fuori le cose più innovative.
Un genere e movimento che sia del tutto nuovo potrà  nascere, ma è difficile intuire cosa sarà  finchè non arriva. Credo anche che un nuovo movimento sia fortemente ostacolato dalla cultura digitale, che tende intrinsecamente verso la frammentazione e la differenzazione. La struttura del mondo ridotto a blog prevede un alto tasso di ricambio e micro-generi effimeri, più che un genere destinato a dominare e durare.

Qualsiasi rivista o webzine musicale di questo nome sembra essere ossessionate dalle liste. Ci sono liste dedicate alle migliori canzoni dei Noughties e questo va bene, per forza di cose sei costretto a trovarci LCD Soundsystem o The Strokes. Ma quando si tratta di stilare le 500 migliori canzoni di sempre, le prime posizioni vengono assegnate sempre ai Beatles o Bob Dylan, male che vada nei primi dieci capitano gli U2, più raramente i Rem, gli Oasis solo se sei in Inghilterra. Va avanti così da quando siamo ragazzini, in qualche modo è il sistema a dirci che “vecchio è meglio”. Quanto ci vorrà  prima che una canzone degli Arcade Fire riesca a entrare in una classifica con pretese universali? La letteratura musicale è apertamente conservatrice: veniamo educati a non lasciare andare.
Sono la persona più sbagliata a cui fare questa domanda dato che gli Arcade Fire non mi dicono niente, sarei il primo a ratificare liste con a capo Beatles o Rolling Stones! Credo che il problema e il fascino rappresentato dalla musica degli anni Sessanta è che questa riflette l’energia di un momento storico in cui tutto accadeva per la prima volta, con un preciso legame con la storia- intesa sia come storia della musica ma anche come le speranze e i turbamenti dal punto di vista politico sociale e culturale. Questo non vale invece per Strokes o Arcade Fire, che non possono assolutamente competere con gli anni Sessanta o con le canzoni del punk. Il problema per la musica degli ultimi anni è che c’è stata una progressiva scissione con la politica, o quanto meno una scissione della musica dal zeitgeist. Gli Arcade Fire non parlano allo stesso numero di persone a cui parlavano i Beatles, è semplice.

Uno dei piccoli corollari presenti nel libro riguarda i chavs, che sembrano trovarsi a loro agio nel presente e nel futuro molto più dei ragazzini bianchi e istruiti di classe media. I chavs guardano con disprezzo l’abbigliamento retro e sono sempre aggiornati con le ultime tendenze del clubbing”… in che modo questo si incastra con il fatto che i retromaniaci sono in genere progressistimentre i chavs tendono a essere conservatori nelle cose che contano davvero, vedi società  e politica? E’ curioso come si stia riconfigurando il rapporto tra classi, musica pop e politica.
Non sono sicuro per chi votino i chavs, suppongo siano apolitici o facilmente strumentalizzabili dai media (paura degli immigrati e così via). In loro c’è probabilmente una percezione grossolana dell’ingiustizia e anche un certo fatalismo: il mondo va così e l’unica cosa che puoi fare è lottare duro per fare i soldi, divertiti finchè puoi. Quando ero studente, un docente disse ci parlò di alcuni studi stando ai quali le classi operaie hanno una diversa percezione della temporalità  rispetto ai borghesi. In sintesi, gli appartenenti della classe operaia non pensavano nel lungo periodo ma erano orientati all’immediato futuro; i giovani lavoratori, nello specifico, individuavano il loro limite nel weekend, laddove il borghese si dedicava ai lunghi piani di vita, con un certo senso della provvidenza, una fiducia negli investimenti per il futuro.
E’ per questo che gli avvertimenti contro il fumo non funzionavano davvero con le classi lavoratrici che non pianificavano o credevano di avere un futuro in cui ci si sarebbe dovuti preoccupare per il cancro o lo stato delle proprie coronarie. Non so quanto gli studi fossero accurati e se valgono ancora, ma è senz’altro vero che la dance culture della classe operaia inglese era fortemente collegata alla mentalità  da weekender.

C’è una eco di questo fenomeno anche nelle tracce pop che dominano le classifiche di oggi, molte canzoni parlano di fare festa il sabato sera come se non ci fosse futuro, facendo sesso bevendo e dando sfogo alla carta di credito senza preoccupazioni. Questo disinteresse verso il passato o verso il concetto di eredità  culturale si collega, a mio avviso, soprattutto a una mancata preoccupazione verso il futuro. Al suo posto,vige una sorta di incoscienza presente, l’interesse nell’adesso e negli ultimi gadget, suoni o stile che siano.

In “Junkspace” Koolhas parla di rigurgito come la nuova forma di creatività  e della cultura come un granchio fatto di LSD che si sposta senza direzione. In breve, per Koolhas la manipolazione soppianta la creazione perchè il cambiamento si è scisso dalla nozione di miglioramento e l’entertainment, oggi, consiste nell’osservare un pianeta incandescente in via di raffreddamento. Credo che il nostro mondo sia falsamente aggrappato a una nozione indefinita e autoreferenziale di libertà , una libertà  che svanisce appena la rivendichiamo. Non a caso manchiamo la direzione e ci spostiamo senza meta. Questo riguarda anche la musica e le arti in generale: non credi che il problema non sia tanto il retro quanto l’incapacità  di poter gestire i nostri movimenti? A quel punto, aggrapparsi al passato è il male minore.
L’ossessione per il passato è decisamente legata alla precarietà  del futuro, all’incapacità  di immaginarlo come un progresso o miglioramento. Stando allo scenario attuale è quasi sicuro che il futuro sarà  negativo, limitato, meno confortevole e meno libero. Concordo con Koolhas sul rigurgito come creatività “… molte polemiche a “Retromania” riguardano la mia apparente inconsapevolezza sul fatto che non esiste un artista davvero creativo o il genio originale: molte persone sono convinte che l’idea stessa del mash-up o del remix non siano niente di nuovo, e che il riciclo, il plagio e la derivazione sono SEMPRE stati il metodo attraverso cui l’arte si è riprodotta. Ma questo è ciò che io chiamo ri-creatività  e credo che sia bizzarro il modo in cui certe persone si eccitano all’idea che innovazione e originalità  siano miti inconsistenti, lasciandosi travolgere da una percezione liberatoria che in qualche modo le consola. Non solo quest’idea mi sembra falsa, storicamente, ma anche statica e rassicurante: in fondo è dagli anni Ottanta che la gente difende il valore culturale del remix o del Dj come artista.

Nel libro citi “Since I left you” degli Avalanche, un album uscito ormai più di dieci anni fa che non ha avuto molto seguito ma è diventato cult. Ci sono persone come il sottoscritto che aspettano invano un follow up, pur sapendo che sarà  pessim. Ha senso fare il seguito di un album composto interamente da frammenti di altri album, che in fin dei conti voleva essere invece la chiusura di un discorso?
Non so. “Since I left you” è un album fantastico, ovviamente. Ma un disco il cui approccio è quello di sintetizzare piccoli frammenti di musica vecchia ha già  decretato la propria fine. Subito dopo il disco degli Avalanches il fenomeno del mash-up è decollato sul serio. Li ho visti in alcuni set all’epoca e quel che facevano era davvero molto simile a un mash-up, c’era l’incongruenza di un pezzo di Dylan che spuntava fuori da una traccia house, una cosa che ti faceva sorridere ma in definitiva ti sembrava ridicola. Divertente, ma che non andava da nessuna parte. E da quel momento sono venuti fuori Dj come Optimo che lavorano in modo simile e anche bene, direi: funzionano alla grande per un party, hanno delle basi fatti benissimo e vanno a pescare in un repertorio consistente, riescono a spacciare gli Stooges come dance di mestiere. Solo che non creano nessuna forma nuova di dance music, cosa che i primi Dj facevano eccome.

Ogni giorno veniamo a conoscenza di qualche reunion (molte delle quali prescindibili: Coal Chamber, Aqua). Le band che avrebbero dovuto smettere anni fa sopravvivono (i Korn ritornano con un disco a quanto si dice influenzato nettamente dal dubstep) altri artisti flirtano apertamente con la necrofilia (la figlia più piccola di Serge Gainsbourg debutta con un album di cover del padre). Come ne usciamo da questa pletora di reunion per soldi (o meglio, di soldi per le droghe?).
Ignorali. Puoi farlo. Anche se il semplice venirne a conoscenza è deprimente in sè.

In realtà  una delle pagini più tristi che abbia letto di recente si trova in “Retromania”, quando parli della reunion delle New York Dolls. Cosa ci aspettiamo da questa gente? Morire o lasciar perdere è davvero l’unico modo in cui riusciamo a comprendere la dignità  nell’industria musicale? Il bisogno di sopravvivere alla vecchia versione di sè stessi va quantomeno difeso.
Ho molta simpatia per i musicisti invecchiati. O anche per musicisti giovani che sono nei loro tardo venti o primi trenta e hanno una carriera praticamente finita. Cosa faranno il resto delle loro vite? Le Dolls, rifiutando di suonare le canzoni del passato nell’ultimo tour, quelle che il pubblico voleva sentire, stavano cercando in qualche modo di conservare la propria dignità  e il proprio orgoglio. Il loro atteggiamento era questo: non siamo un complessino nostalgico, ma una band che si è rimessa in gioco e ha scritto nuovi pezzi.
Molto probabilmente si stavano illudendo credendo che ci sarebbe stato interesse per il nuovo materiale. E la reazione del pubblico a quel concerto di cui parlo nel libro deve essere stata una botta non indifferente