Deve essere andato proprio bene il precedente “A sangue freddo” se il nuovo disco del Teatro degli Orrori è uno dei dischi più attesi del 2012, con interviste e a spazi loro dedicati anche da media solitamente refrattari alla musica non esattamente di massa. Deve essere andato molto bene “A sangue freddo” se La Tempesta ha accettato di pubblicare un concept di 16 brani, un’opera lunga e ambiziosa che doveva intitolarsi “Storia di un immigrato”, rifacendosi palesemente a De Andrè e al suo capolavoro del 1973. Ma poi la band, scesa a più umili consigli, ha “ripiegato” sul titolo che ricalca quello del distopico  e fantascientifico romanzo  di Aldous Huxley. Anticipato da fughe di notizie circa una dissoluzione estiva della band, poi rientrate, nonchè da un bel battage promozionale come sopra accennato e,  cosa più interessante, dal controverso singolo “Io cerco te”, oggi è finalmente il momento di sentire questa ricca messe di nuova musica del Teatro degli Orrori.

Non nuovi a polemiche nate attorno alle liriche di Capovilla (per tacere di quelle attorno alla personalità  del medesimo), i Nostri non se le sono fatte mancare nemmeno questa volta, così, dopo l’anatema di Romana Chiesa, ad insorgere stavolta è stata l’altra sponda del Tevere. In “Io cerco te” è presente il verso “Roma capitale sei ripugnante” che ha scatenato le accuse di leghismo o filo-leghismo (o come vi pare) della band veneta. Singolo che, per quanto mi riguarda, ho trovato nel pieno stile Teatro degli Orrori (forse troppo, qualcuno ha detto clichè?)  ma comunque interessante nei fraseggi chitarristici  della seconda parte e per il portato tematico della nostra società  stanca di essere stanca, infine perchè insieme a “Rivendico” segna la chiara intenzione del disco di porsi dalla parte di coloro che sono soltanto ombre sulla nostra strada. Dopo questa doppietta parte un’opera che non sa e non vuole prescindere dalla personalità  di Capovilla, la sua propensione a riempire il palco, lo stile teatrale che chi lo ha seguito nelle letture di Majakovskij ha bene impresso. La sensazione è che il frontman avesse bisogno di comunicare i propri pensieri senza però la vera necessità  di fare musica come una band, unitamente alla necessità  di battere il ferro della fama finchè caldo. Da questo scaturisce un disco che si snocciola in brani riusciti (i primi due e poco altro), altri meno (“Non vedo l’ora”, “Cuore d’Oceano” stralunato con Caparezza e gli Aucan, “Monica”), altri molto meno (“Gli Stati Uniti d’Africa” e  “Cleveland-Baghdad” che mi ha fatto ripensare ai Creed con un brivido di dolore, purtroppo proprio quei brani che tentano uno scarto dallo stile più classico). Il resto è fatto di pezzi che musicalmente si assomigliano ma che in fondo sono nient’altro che messe in musica degli scritti di Capovilla, quindi con lunghi recitati (anche interessanti) e niente più.

Questo è il prezzo da pagare: nessuno può negare che grandissima parte del successo della band sia dovuta al carisma del cantante (pure quasi tutto l’odio) ma qui esso straborda e copre tutto, si fa unico punto di interesse e non riesce ad esserlo abbastanza. Il risultato finale è un viaggio al termine della notte dove c’è tantissima notte da non vederne la fine; un lavoro eccessivo che vorrebbe dire tutto e inevitabilmente si fa prendere la mano, situandosi in un punto tra coraggio e insensatezza, pericolosamente tendente verso la seconda. Questo è avvenuto perchè non si è contenuta la rabbia, non c’è stato il lavoro di coesione e di sottrazione che sta alla base dei grandi concept-album, lasciando il campo libero ad un brutto parlarsi addosso. Invece di selezionare i brani migliori e lavorarci su si è portato avanti tutto, realizzando un disco che suona come una raccolta postuma, di quelle storie sfiorite troppo presto. Spero, anzi sono certo di sbagliarmi.