Non esprimo preferenze tra una canzone di Bob Dylan nella versione di Rod Stewart e l’originale, lo so, sono uscito allo scoperto: non sono un grande fan di Dylan. Ho “Blonde and Blonde” e “Highway 61 Rivisited”, ovviamente. E “Bringing It All Back Home” e “Blood on the Tracks”. Chiunque apprezzi la musica possiede questi quattro album. Dylan mi interessa abbastanza per comprare The Bootleg Series 1-3 e quell’album live che adesso sappiamo non fu registrato alla Royal Alber Hall. Le recensioni di “Time Out of Mind” e “Love and Theft” mi hanno convinto a sganciare soldi anche per questi, benchè non possa dire di ascoltarli molto spesso. Una volta ho chiesto “Biograph” come regalo di compleanno, che, aggiunto a “The Bootleg Series”, fa due cofanetti di Dylan. Adesso che ci guardo, mi accorgo che ho anche…….. e così all’infinito, scriveva Nick Hornby nel suo “31 Canzoni”. Difronte a questa situazione si devono essere trovati i membri di Amnesty International, che hanno voluto festeggiare i loro cinquant’anni pubblicando quattro, e dico quattro, dischi di cover, dell’artista che più di tutti è riuscito ad ottenere un determinante impatto sulla società  dello scorso secolo.
Ottanta musicisti che hanno offerto gratuitamente le proprie registrazioni di cover di Zimmerman. Settantasei pezzi suddivisi in quattro dischi, forse, una cosa fin troppo grossa. Si saranno seduti a tavolino gli ‘uomini’ di Amnesty e nello scegliere quale pezzo infilare nella raccolta, avranno fatto fatica a lasciare fuori qualche reinterpretazione dylaniana.

E’ innegabile, Bob Dylan ha segnato la storia della musica, e non solo. Le sue mille maschere, e i suoi altrettanti abiti, hanno influenzato generazioni e generazioni. Le sue canzoni sono state la voce di ‘battaglie’, hanno accompagnato lacrime di disperazione, sono state la scossa per ripartire e la zavorra per affondare. Bob Dylan è finito per essere la colonna sonora delle giornate, o delle vite, di un numero spropositato di persone, riuscendo, parole di Sean Wiletzen, tra i padri di Amnesty, ad esprimere l’angoscia e la speranza della società  moderna. Punto di incontro tra Amnesty e Dylan è appunto, come sottolineato da Wiletzen, il battersi per ‘giuste’ cause, lo schierarsi sempre dalla parte dei più deboli, degli emarginati e criticare e combattere crimini di qualsiasi natura (cosa che in realtà  il caro vecchio Bob ha portato avanti solo durante la primissima parte della sua carriera, per poi prendere le distanze da tutto ciò che potesse catapultarlo al centro della critica).

Parlare di tutti e i settantasei pezzi che compongono “Chimes of Freedom: Songs of Bob Dylan Honoring 50 Years of Amnesty International”, nato dalle menti dei direttori artistici Jeff Ayeroff e Julie Yanatta, gli stessi che idearono il tributo a John Lennon, “Instant Karma”, resta una cosa improbabile. Rimangono tuttavia impresse le reinterpretazioni da parte di ‘Monumenti’ della musica come Johnny Cash (“One Too Many Morning”), Patti Smith (“Drifters Escape”), Pete Townshend (“Corinna Corinna”), Mark Knopfler (“Restless Farewell”), Joan Baez (“Seven curses”), Pete Seeger (in un emblematica “Forever Young”) ma anche quelle delle nuove leve, su tutte il punk dei Gaslight Anthem in “Changing of the Guards”, il nufolk dei My Morning Jacket in “Youre A Big Girl Now” e la rivisitazione di “It Ain’t Me Babe”, quasi a cappella, da parte dei Band of Skulls.

Altre interpretazioni degne di nota, e che meritano di essere citate sono quelle di Diana Krall (che delizia con una versione ‘strappalacrime’ di “Simple Twist of Fate”), dell’ex Police Sting (in una delicatissima “Girl From The North Country”), Queens of the Stone Age (alle prese con un vecchio e sporco blues in “Outlaw Blues”, forse la migliore delle 76), Fistful of Mercy (del trio Harper-Harrison-Arthur), Kris Kirstofferson (in una splendida “Quinn the Eskimo”), Flogging Molly (che celtichizzano “The Times are a changin”), della regina del pop Adele (con una versione live di “Make You Feel My Love”) e ancora Sinead Oconnor, Steve Earle, Elvis Costello, Tom Morello e Lenny Kravitz.

Naturalmente non potevano mancare scelte da ‘voltastomaco’, o forte nausea. Non erano mancate nel precedente tributo a Lennon (vedi Tokio Hotel), non sono mancate in questo per il menestrello di Duluth, ma passiamoci sopra.
Quel che resta sono cinque ore e mezza di storia a cui viene data una spolverata, e se non vi piace come idea, beh, lasciate da parte l’amore per la musica, e pensate solamente che si tratta di una buona causa.