Come ogni recensione che abbia come centro i We Were Promised Jetpacks e che abbia la pretesa di essere un minimo completa, non potremmo prescindere dal citare le altre due compagini sotto Fat Cat: i connazionali The Twilight Sad e i Frightened Rabbit. Questi ultimi hanno recentemente firmato per la Atlantic ma fa ben poca differenza. Scettici quando si parla di associazioni e ilari quando si citano le “‘scene’ nazionali, noi lasciamo volentieri il campo della mediocre sociologia musicale per capire se realmente ciò che si dice è vero.
Se, cioè, “In the Pit of the Stomach” mantiene fede al suo nome e se, come qualcuno afferma, il combo di Edimburgo è la novità  nascente di un panorama, quello scozzese, ultimamente orfano di uscite commercialmente importanti in controtendenza con gli ultimi due, floridi e ricchi lustri.

“In the Pit of the Stomach” è animato da quello che mi appariva come un sano moto nervoso, quando poi ci siamo accorti che maturava, coi minuti che passavano, la pericolosa somiglianza con gli Arctic Monkeys e un’altra mezza dozzina di nomi. Gli staccati, le dinamiche chirurgiche al servizio di una melodia onnipresente e delle parti vocali trascinanti portano certamente l’album a livelli qualitativi relativamente alti ma, giocoforza, anche in ambiti pericolosamente datati. Registrato completamente in Islanda, il successore dell’ottimo “These Four Walls” del 2009, si arrampica meticolosamente su per gli stereotipi che hanno marchiato a fuoco gli esordi dei più famosi Biffy Clyro sforzandosi ““ e l’intento è altresì lodevole ““ di regalare una propria personale impressione all’insieme.

“Through the Dirt and the Gravel”, “Hard to Remember” e “Sore Thumb” coi suoi echi alla Explosions in the Sky, offrono il paradigma artistico della band di Edimburgo. Se non ci si pongono troppe domande, insomma, i We Were Promised Jetpacks fanno il proprio lavoro in maniera doviziosa e con stile. La foga espressiva supplisce a una carenza di personalità  evidente e l’impressione di avere a che fare con una band inesperta, con un songwriting ingenuo (I’m chasing my tail / it would help if I knew where it ends da “Circles and Squares”) e la testa agli Interpol di “Turn on the Bright Lights”.
“In the Pit of the Stomach” è comunque un lavoro coerente, che non si pone la reinvenzione della melodia come fine ultimo e non fa nulla per nascondere le proprie, poche pretese.

Qualcuno ha provato a spacciarli come la next big thing ma credo toccherà  attendere ancora qualche tempo: noi non abbiamo fretta e loro, appena passati i vent’anni, stanno per arrivare alla polpa dell’esistenza.