Chissà  quante aurore boreali dovranno arrivare per far sì che l’estate dei Sigur Ros possa finalmente arrivare. “Meà° suà° à­ eyrum vià° spilum endalaust” aveva fatto intravedere spicchi di sole in cui il pop sembrava aver trovato posto nel cuore della band islandese. Si rivelò essere solo un piccolo fuoco fatuo, svanito nel breve volgere di due/tre canzoni per lasciar posto al crepuscolo oppure alle eterne prime luci dell’alba, quando la natura sonnolenta si desta dal sonno e allo stesso tempo non è ancora del tutto pronta ad arrendersi alla luce. Chissà  quanti cuori ghiacciati saranno ancora costretti a grondare malinconia attraverso le loro canzoni. E chissà  quanti sbadigli per tutti coloro che non li hanno mai digeriti e che continueranno ad annoiarsi dalla prima all’ultima nota anche nel caso di “Valtari”, la nuova, nordica creatura discografica appena data alle stampe. Io appartengo alla prima categoria, quella dei cuori romantici e malinconici intrappolati tra le gelide acque dei mari artici, sempre in bilico tra il bisogno di rigirare i ricordi tra le dita e la voglia di nuovi inizi lontano da casa. Ed è questo l’effetto che la musica di Jonsi e soci mi ha sempre fatto: mette in testa la voglia di essere altrove e allo stesso tempo alimenta la nostalgia delle cose che non ho più e che mi porterebbero a restare esattamente dove sono.

La musica è sempre un piccolo compromesso con se stessi e le proprie resistenze, costringe a mettere a nudo ciò che magari nascondiamo incosciamente per non vedere le noste pareti crollare. Avevo paura quando per la prima volta ho incrociato le spade con questo disco che, in qualche modo coerente e non troppo distante dal passato, rappresenta un cambiamento nel percorso dei Sigur Ros. Il suono, sempre più che riconoscibile, si fa ancora più soffuso, non etereo ma meno post rock e più ambient. Probabilmente un lavoro di transizione, seppur di alta qualità , che crea minore impatto emotivo e meno scossoni tellurici nel sentire dell’ascoltatore.

Cantato completamente in lingua madre, l’album prende per mano per tutti i suoi cinquantatre minuti di durata, con delicatezza e discrezione. I due brani interamente strumentali in chiusura ribadiscono un cambiamento in chiave ambient che sacrifica quasi del tutto i crescendo orchestrali a cui eravamo abituati. Come già  accennato in precedenza le differenze ci sono, anche se concettualmente lo stile resta lo stesso di sempre, per cui siete avvisati: se li avete apprezzati fino ad oggi continuerete a farlo. Allo stesso modo, se per voi hanno rappresentato lunghi sbadigli e sonni profondi, le cose non cambieranno. L’estate può ancora aspettare nel grande Nord, d’altro canto sarebbe stato ingenuo aspettarsi altro.