Il Melt! è il festival esteticamente più bello a cui vi capiterà  di partecipare. E questa mia nuova convinzione difficilmente si sbriciolerà . Per me, che adoro le strutture industriali, specie se dismesse, passare tre giorni in mezzo a gigantesche macchine che una volta servivano per la raccolta del ferro è stato, senza tanti giri di parole, un surreale e magnifico sogno. Sarebbero bastate quelle gru enormi, circondate dal lago Gremminer, a farmi passare tre giorni splendidi. Ma Ferropolis, “la città  del ferro”, oltre ad essere un museo a cielo aperto di gigantesche macchine industriali è anche la sede del Melt! Festival e le due cose insieme erano un richiamo assolutamente irresistibile.
Ferropolis si trova nelle vicinanze della città  di Gräfenhainichen e poco distante dalla più grande Dessau. Raggiungere il Melt! Festival non è difficile e le possibilità  sono molteplici: treni speciali, pullman organizzati, i passaggi condivisi (mitfahrgelegenheit).

Io sono arrivata da Berlino con un paio di cambi e un normale biglietto regionale (che è caro, sì, ma rimane abbordabile). Dalle stazioni sono poi previste comode e per nulla affollate navette (che costano però due euro).
Per il biglietto del festival bisogna però organizzarsi con un certo anticipo. Nato nel 1997 il Melt! ha raggiunto una popolarità  considerevole negli ultimi anni, tanto che i biglietti dell’ultima edizione sono andati esauriti già  un paio di mesi prima. Ovviamente basta fare un giro su eBay e siti d’annunci per trovare un posto last-minute. Il prezzo si aggira tra i 110 e i 130 euro (dipende dagli early bird e da tasse varie).
Il festival dura tre giorni, dal venerdì alla domenica, con djset che durano fino al lunedì mattina. In realtà , volendo, è possibile arrivare già  il giovedì sera e quest’anno era anche prevista una serata di anteprima con concerti decisamente appetitosi (con ad esempio i già  sentiti e apprezzati WhoMadeWho) ad un prezzo supplementare davvero ridicolo (5 euro).
Ma evidentemente non mi sono ancora adattata a queste maratone festeggianti a cui i tedeschi sono abituati e anche i soli tre giorni normali saranno fatali per la mia schiena e il mio ciclo sonno-veglia. Ma questo non ha nulla a che fare con la qualità  del festival.
Come ad ogni festival il montaggio della tenda e le sistemazioni varie mi fanno perdere i primi gruppi ma non importa, perchè puntuale alle 18.30 sono sotto il palco principale per i miei adorati Raveonettes che aspettavo di vedere da tempo. è bello vederli finalmente suonare dal vivo. Un po’ meno lo è vederli su quell’assolato e gigantesco palco. Mi ero sempre immaginata i loro concerti in un club piccolo e fumoso e pieno di divanetti, ma quello dell’ambientazione è l’unico problema. In appena un ora di concerto riescono a condensare brani vecchi e nuovi in un’esibizione che emana una dose considerevole di stile. Pur essendo tutte molto simili, le loro canzoni non sono ancora riuscite ad annoiarmi e credo che ciò sia dovuto alle loro influenze precise, tra Velvet Underground e Jesus and Mary Chain, e anche alla loro semplicità  e bellezza. Mi danno sempre la sensazione di essere ubriaca senza aver bevuto un solo goccio di alcol.

Dopo la loro esibizione per me comincia una surreale ricerca per il programma. Di solito ai festival ne venivo letteralmente sommersa, anche nei festival dove il palco è uno solo. Al Melt!, che di palchi ne ha 5, nessuno sembra porsi il problema dell’ordine dei concerti e delle normali (e numerose) sovrapposizioni. Lo chiedo più volte, al banchetto della birra, al banchetto dei tappi per le orecchie, al banchetto del merchandising e tutti mi guardano e sembrano non capire. In che senso il programma? Il programma cavolo! Gli orari, il running order! Ah, boh….
Lo recupero alla fine in sala stampa, un luogo rilassante ed elegante dove passerò poi moltissimo tempo, e organizzo mentalmente la serata che comincia con i The Raptures. La loro esibizione si meriterà  poi un posto tra le più noiose e ridondanti del festival. Il gruppo di New York sarebbe anche bravo e capace e divertente e orecchiabile e tutto ma il problema è la ripetitività  delle canzoni, non solo nello stile (cosa che ad esempio nei Raveonettes va a loro vantaggio), ma proprio nella struttura. Sembra davvero di ascoltare la stessa roba per tutto il tempo.
Molto più interessante è il concerto dei M83: un’esibizione totalizzante. Sembra che tutto faccia parte della stessa cosa, dai musicisti sul palco fino all’ultima fila del pubblico. Si svolge nel secondo palco più grande, sotto un grande tendone dove le persone sono stipatissime e totalmente partecipi. Complice anche la musica, un misto tra suoni dreampop e shogaze e ritmi che più devono alla musica elettronica, il loro concerto è un meraviglioso stato di trance danzante.

Dopo di loro torno sul palco principale a dare una seconda possibilità  a Caribou, che avevo già  visto due anni fa, proprio l’anno del suo ultimo lavoro, “Swim” e che in qualche modo non era riuscito a catturarmi. La bellezza nella musica di Caribou sta nel riuscire a miscelare elettronica con moltissimi altri strumenti “analogici” e i suoi concerti dovrebbero cercare di rendere al meglio questo aspetto. In qualche modo però, per me, non ci riesce mai pienamente e tutto sembra ancora troppo digitale e non suonato dal vivo. Ma questa volta, per qualche motivo, l’impressione che ne ho è completamente positiva ed è davvero impressionate vedere così tanta gente ballare. Ormai la mia prima serata al Melt! è entrata nel vivo. I macchinari giganteschi sono illuminati in modo magnifico e gli effetti di luce sono davvero fantastici. Non manca neanche qualche eccesso, come le enormi fiamme che vengono ogni tanto lanciate da una delle macchine. Le mirrorball appese qua e là  sono gigantesche e il tutto ha un aspetto sempre più surreale.
Una delusione totale sono i Bloc Party, in uno strano limbo tra musica da ballare e musica da ascoltare che non riesce a trasmettermi niente. Nel frattempo il meteo schizofrenico di Ferropolis, che per tutto il giorno oscillava tra cielo terso e pioggia copiosa, ha ricominciato a mostrare il suo lato peggiore, motivo per cui non mi sento troppo in colpa quando, senza aspettare la fine del concerto, mi ritiro nella mia tenda.

Dopo la prima notte comincio ad apprezzare la distanza tra il campeggio e l’isoletta di Ferropolis. Se c’è una cosa che odio dei festival, comprendendo al contempo che non posso farci nulla e che sia normale, sono gli schiamazzi della gente nei campeggi. Tutte le volte impreco mentalmente contro la gente che ascolta musica a palla anche di notte, quando c’è un festival con musica molto più bella a pochi metri e per cui hanno pagato un biglietto, e che non capisce che in campeggio ci sarà  probabilmente gente che vuole dormire. Ma questo lo dice solo la parte di me che è già  vecchia dentro. C’è anche una parte di me che accetta tutto questo come parte del gioco.
Al Melt!, fortunatamente, non ho dovuto imprecare mentalmente contro nessuno. La distanza tra i due luoghi rende il campeggio piacevolmente silenzioso. L’unica cosa che da lì viene percepita del festival sono i fasci di luce colorata sulle nuvole. E poi appena fuori dai cancelli c’è lo Sleepless Floor, luogo di ritrovo di quelli che, appunto, non vogliono dormire.
Tutti questi accorgimenti però nulla hanno potuto contro il grazioso temporale che mi ha tenuta sveglia tutta la notte. Il motivo per cui già  alle tre mi sto aggirando tra i palchi e quei macchinari giganteschi che sembrano scheletri di dinosauri è che sono alla disperata ricerca di un posto asciutto (che in questo caso è la sala stampa). Come il giorno precedente il tempo sembra decisamente prenderci in giro, alternando cieli fantastici a temporali di quindici minuti. Per la prima parte del pomeriggio mi aggiro nei dintorni del Big Wheel Stage, curato dal portale di elettronica Resident Advisor. è situato proprio su una punta dell’isolettadi Ferropolis, vicino anche al palco Melt!Selektor. Qui le proposte sono prevalentemente dj o progetti elettronici. Il Melt!Selektor è poi curato direttamente dai Modeselektor, che sembrano essere un po’ i padroni di casa (un palco intero curato da loro, un djset la sera prima e un concerto live in programma per la serata). I miei gusti mi spingono però altrove e dopo qualche ora decido di fare un salto nella Intro Zelt, ovvero il palco dentro il tendone sponsorizzato dal magazine Intro. Stanno suonando i Man Without Contry, avvolti dall’oscurità  e dal fumo. Sono quasi completamente nascosti: oltre alle loro sagome si distingue poco altro. Se ne stanno in riga, di fronte ai loro stumenti, e per questo motivo mi fanno subito venire in mente i Kraftwerk. Sono in tre, ma sono solo due a formare il cuore pulsante di questo progetto, che mi ricorda un misto tra M83 e Cut Copy.

Poco dopo, incuriosita dalle chiacchiere che avevo origliato in giro, mi apposto sotto il palco principale per conoscere Casper, un rapper tedesco a quanto pare piuttosto conosciuto e dalla longeva carriera. C’è qui gente che mi ascolta dall’inizio? chiederà  ad un certo punto, dimostrandosi stupito dalla quantità  di mani alzate. Per me, che ignoro completamente la sua produzione, il concerto è comunque gradevole. C’è anche da dire che è ben poco quello che riesco a capire dai testi, ma è divertente il loro modo di dialogare con il pubblico e anche il fatto che indossino tutti una t-shirt batik realizzata proprio da loro. E ciò scatena in me nuove riflessioni e considerazioni sul revival anni ’90, ma non è di questo che voglio parlare qui.
Dopo di lui vado a procacciarmi del cibo. Il Melt! è isolato e nei paraggi non ci sono supermercati. L’unica soluzione è organizzarsi prima con una grossa spesa o spendere un po’ di più e scegliere tra i numerosi banchetti che propongono quasi tutti cibo buonissimo: pane ripieno di formaggio cotto sul momento, degli strani gnocchi ripieni di patate, spinaci o funghi, spätzle freschi. Anche questo aspetto del festival è organizzato in modo perfetto.
Dopo cena, sempre sul palco principale, cominciano i Two Doors Cinema Club. Avevo cominciato ad apprezzare veramente questa band direttamente ad un concerto ed ero stata tormentata dai rimpianti per non aver potuto danzare come si deve ad ogni canzone. Questa volta sono prontissima, mi pare di essere ad un concerto di vecchi amici e mi diverto tantissimo.
I Gossip sono poi una piccola sorpresa. Pur conoscendoli bene mi aspettavo un concerto completamente diverso. Non ero mai impazzita per loro, nè avevo mai approfondito il gruppo per quello che andava al di là  della musica. Non sapevo quindi definirli “caratterialmente”. E li avevo sempre associati a qualcosa di patinato e glamour (anche se già  il fatto che Beth Ditto sia un modello glamour completamente opposto ai soliti avrebbe dovuto farmi pensare).

Quella con cui farciscono il live è una serie di frasi già  troppo sentite per crederci ancora (che la Germania è il loro paese preferito, che siamo il pubblico più caloroso del tour) ma suscita comunque tanta tenerezza e simpatia il fatto che la cantante provi a comunicare in tedesco (riuscendoci anche decentemente). Più che carismatica la definirei bellissima. Ci mette tanta energia nel cantare che alla fine è talmente accaldata da doversi liberare del suo vestito rosso rimanendo in tuta contenitiva: adorabile. Ma il momento più divertente di tutto il concerto è quando tra una canzone e l’altra interrompono tutto per attirare l’attenzione su uno spettatore vestito da enorme assorbente usato che, come se non bastasse, viene anche invitato sul palco nel giro di un paio di brani E dopo un paio di bis, quando se ne sono già  andati dal palco, ecco che dal microfono ancora accesso arrivano le note di “I Will Always Love You”, cantata mentre Beth Ditto si aggira tra il backstage e mandata dai megaschermi.
La serata potrebbe proseguire in modo meraviglioso, questa volta, perchè già  dopo due canzoni i Modeselektor hanno creato l’atmosfera perfetta. Ma io sono veramente, veramente stanchissima e mestamente me ne torno in tenda.
Il terzo è il giorno più lungo, ma anche il più bello. Come il giorno prima mi ritrovo ad aggirarmi tra gli scheletri arruginiti di Ferropolis già  dal primo pomeriggio. Il tempo continua ad essere schizofrenico ma questa volte il sole prevale sul resto.

C’era un unico nome sul programma per cui non avevo grandi aspettative ma che sapevo alla fine avrei visto. Parlo di Lana del Rey. Già  che ero lì non potevo perdermela. In realtà  sono sotto il suo palco già  un’ora prima della sua esibizione, ma a muovermi non era stata l’attesa per un nome tanto chiacchierato, quanto il fatto che il luogo fosse riparato dalla pioggia. Sul palco c’è un dj solitario che suona per una pista vuota e per qualche sparuto gruppo di personaggi che passa velocemente salutandolo (amici?). L’attesa è allietata in modo davvero gradevole ma mi chiedo quante persone riusciranno ad arrivare nel giro di un ora o poco meno. Se la fileranno, questa? La risposta è: sì, certo che sì. Poco prima dell’inizio del concerto lo spazio davanti al palco è completamente riempito nonostante si tratti di uno dei più grandi di tutto il Melt!. Infine, eccola.
Sarà  che ero prevenuta ma davanti a lei resisto appena venti minuti. Ad un certo punto mi sposto anche più vicino per cercare di vederla meglio, ma questo sembra il pubblico più agguerrito di tutto il festival. E sinceramente ancora non so spiegarmi il perchè.
L’unica parola che mi viene in mente è “mediocre”. Non posso dire che abbia una brutta voce, ma non è neanche particolarmente bella o, meglio, particolare. Non posso dire che abbia canzoni brutte, ma neanche di una bellezza speciale. Non posso dire che sia brutta, perchè certo che è carina, ma il suo vestitino a pois è banalissimo e la fa sembrare una bambolina insipida. E non posso neanche dire che sul palco non provi a fare la sua figura. Ci prova, dice ciao, ad un certo punto scende anche per avvicinarsi al pubblico (sempre cantando con quel suo fastidioso e monocorde tono da chanteuse).

Ma la cosa più fastidiosa per me è il pubblico che ad ogni ritornello, ma anche ogni volta che lei si gira da una parte o dall’altra del palco, sussulta stupito. Il fatto che tanta mediocrità  venga accolta con tanto entusiasmo mi lascia veramente perplessa. E scuotendo la testa esco dai cancelli.
Lo Sleepless Floor è infatti appena fuori dall’ingresso principale. L’atmosfera qui è molto più selvaggia. Sabbia per terra, decorazioni che ricordano molto il defunto (e famoso) Bar25 di Berlino e gente vestita in modo buffo. In quel momento sta suonando Matias Aguayo e l’atmosfera è davvero bella, anche se completamente diversa da quella che si respira qualche metro più in là .
Il secondo concerto vero e proprio della giornata, e su cui nutro un po’ più di speranze, è quello dei The War on Drugs, e convinco altre persone a seguirmi perchè diciamocelo: il nome è fighissimo e particolarmente invitante. Il concerto è carino, ma non di più.
Dopo di loro riesco anche a dare una veloce occhiata ai The Whitest Boy Alive, progetto di Erlend à’ye parallelo ai Kings of Convenience che ha preso forma a Berlino, dove sono particolarmente amati. Il loro è un pop delizioso, morbido e dolcemente ballabile.
Ma io non sto più nella pelle per l’ultima parte della serata. Il caso ha voluto che due dei concerti da me più attesi si concentrassero nel giro di poche ore nel palco Intro Zelt, che per qualche strano motivo trovo il palco migliore, nonostante sia completamente coperto e l’ambientazione che tanto amo sia qui nascosta. Trovo però che, per la musica che sto per sentire, questo luogo sia perfetto.
Poteva cominciare in modo lento e catturarci piano piano, proprio come all’inizio del suo ultimo album, invece Zola Jesus arriva sul palco dimenandosi a colpi di batteria, coperta da un cappuccio, senza lasciare che il pubblico veda il suo volto. E’ un inizio potente, in cui prima della voce è il corpo tutto a cercare un collegamento con la musica. E tutta la sua esibizione ha molto di particolare. In primo luogo mi colpisce la contraddizione tra una musica così oscura e la prevalenza del colore bianco, non solo sulla copertina di”Conatus”, ma anche nei suoi vestiti, trucco e capelli. Ma anche il suo modo profondo e quasi carnale di cantare mi riempe di ammirazione. Verso la fine del concerto mi accorgo che tutti stanno cominciando a ballare e la cosa dapprima mi stupisce, visto che mai avevo associato le sue canzoni a qualcosa di ballabile, ma poi mi rendo conto che è proprio questo senso di profondità , di vicinanza e quasi compenetrazione tra il corpo e la musica che ci sta facendo muovere.

Dopo quest’esperienza particolare mi aspetta qualcosa di decisamente meno intellettuale: i Justice, il cui concerto era per me un evento da depennare dalla lista delle cose che si devono assolutamente fare nella vita. Mi aspettavo però croci luminose gigantesche, suoni più grassi e danza più sudate. Tutto sommato il concerto dei Justice è una cosa sobria. Le canzoni sono però spezzettate, allungate, ricucite rispetto alle versioni degli album. Il che potrebbe essere un modo per dare particolarità  al live ma a me sembra più che allunghi inutilmente l’attesa per il momento topico. Tanto più che il concerto ha una durata smisurata ed eccessiva: due ore di cui sinceramente non sentivo il bisogno. Ma non importa, tanto sotto sotto mi piace.
Infine, eccomi di nuovo dentro il tendone con il cuore che mi batte forte come ogni volta che sto per vedere per la prima volta un gruppo che mi piace veramente, veramente tanto.
Avevo snobbato il primo album degli Yeasayer, per innamorarmi poi perdutamente del secondo. Anche dal vivo confermano tutte le mie aspettative, riuscendo ad essere intelligenti, divertenti e cangianti, spostandosi tra sperimentazione, classici suoni pop, rock e africaneggianti. Tra tutta questa nuova stirpe di gruppi che va da Animal Collective a Dirty Projectros, passando per mille altre formazioni, trovo che gli Yeasayer siano spesso i più coraggiosi, rischiando a volte qualche sbrodolatura verso l’inascoltabile o il revival anni ottanta troppo spinto, ma restando in qualche modo splendidi. Ed è bellissimo ballare un concentrato di così tante sonorità . “Madder Rad”, suonata verso la fine ed accolta dal pubblico con giubilo rispettoso e quasi sacrale, è carezzevole, catartica e meravigliosa.

Credevo che dopo di loro sarei crollata beatamente al suolo, e invece mi sento carichissima. Mi congedo però dalle gigantesche mirrorball e dalle surreali macchine di Ferropolis e torno allo Sleepless Floor dove sta suonando Ellen Allien, nome che da quando sto a Berlino ho letto sui programmi anche troppe volte ma che non avevo mai visto dal vivo. Mi piace, per piacermi. Ma ancora, di certe cose ci capisco pochissimo. Il fatto che però rimanga a ballare per più di un’ora è un modo per dire che anche la dj tedesca si è guadagnata un posto speciale tra i ricordi di questo festival.